Quando Visconti dirigeva alla Scala

Quando Visconti dirigeva alla Scala Quando Visconti dirigeva alla Scala MILANO — La sera che sono nato io, diceva Luchino Visconti, alla Scala c'era La Traviata. Un modo molto milanese di caratterizzare una data, e tipico di chi ha vissuto una vita intera nel segno del teatro. Il palco numero quattro, alla Scala, era l'osservatorio di famiglia dei Visconti: e nel grande palazzo di via Cerva c'era un piccolo teatro che conobbe le prime esperienze del futuro regista. Oggi, nel ridotto della Scala e nelle sale del museo attiguo, la vicenda di Visconti regista di prosa e di melodramma è ripercorsa da una suggestiva mostra documentaria. A suo tempo abbozzata a Spoleto, poi allestita a Reggio Emilia, la nostra approda così alla Scala, il luogo delle grandi regìe di Visconti. La si deve a Caterina D'Amico De Carvalho, la stessa che in uno splendido volume di fotografie (.Album Visconti, ed. Sonzogno) ha saputo cogliere il prezioso intreccio di una vita e di una vocazione. Ecco dunque i sottili rapporti estetici fra l'aristocratico lombardo e la sua raffinata grafia registica; ed ecco i profondi rapporti ideali fra l'intellettuale progressista e certi suoi prodotti, soprattutto filmici, quali Rocco, o La terra trema. Qualcuno parla di contraddizione forma-contenuto, per quel che vale ancora un simile distinguo: ma la contraddizione non è piutto- sto nella storia e nella vita, nel rampollo dei signori di Milano che scopre le grandi questioni sociali, nel colto patrizio mitteleuropeo che s'affaccia su, dramma delle migrazioni di popoli? Qui alla Scala il discorso su Visconti è limitato alle regìe teatrali. Che cosa si può dire di quel lavoro? Risponde in due parole Giovanni Testori: la regìa di Visconti è «innovativa senza essere distruttiva». Poi si parla di padanità, della riduzione scenica di opere come II giardino dei ciliegi a dimensioni e caratteri lombardi: che non è riduzione in senso stretto, dice Testori, perché anzi siamo di fronte ad un'esaltazione dell'universalità della cultura. Assieme a Paone, Testori conobbe con Visconti l'amarezza di un potere che appunto a quella universalità voleva opporsi: 1961, l'accusa di oscenità per L'Arialda. Le grandi regìe liriche recano il segno del Visconti più vero: il senso possente della scena, la cura quasi feticistica dei dettagli, il dominio sugli interpreti. Vediamo Luchino di fronte alla Callas, le braccia al cielo, il desiderio di trasmettere un'ansia di perfezione. Il culto della grande lirica tradizionale, così fertile al seme della ricerca registica. Scrive Visconti a Ghiringhelli: d'accordo, dirigerò l'opera sperimentale, ma ad un patto, che in questa medesima stagione mi sia affidata la regìa di un melodramma ottocentesco. Si affaccia fra questi documenti la caducità della regìa teatrale, diversamente dalla cinematografica così aleatoria: occorre un lavoro di registrazione critica, dice Testori, che affidi certe conquiste della cultura a qualcosa di più duraturo dell'ammirato ricordo di «chi c'era». _ „ 0 Mg* Luchino Visconti nel '60 sul set di «Rocco e i suoi fratelli»

Luoghi citati: Milano, Reggio Emilia, Spoleto