Leone e la stampa di Mario Missiroli

Leone e la stampa Taccuino di Vittorio Gorresio Leone e la stampa Fra vecchie carte d'archivio trovo il ritaglio di un'intervista che Leone concesse a Mario Missiroli quando era presidente del governo di transizione costituito quindici anni fa per dar modo ai partiti di mettersi d'accordo sul famoso centro-sinistra detto organico, e vale a dire con la diretta partecipazione dei socialisti. Leone aveva lasciato la presidenza della Camera per prendere la direzione del potere esecutivo, e dette a Missiroli l'impressione di essere crucciato. Così, su Epoca del 22 settembre 1963, Missiroli riferiva di avergliene domandata la ragione: «I suoi colleghi — rispose Leone — troppi suoi coileghi continuano a darmi dei dispiaceri». Era un lamento sul contegno dei giornalisti in generale, e Missiroli chiese incuriosito: «Dispiaceri? ma quali?». Leone: «Sì, sì, perché continua sui giornali la campagna a danno dei parlamentari...». «Il suo cuore è rimasto là...», osservò Missiroli alludendo al fatto che Leone aveva da pochi mesi lasciato la presidenza della Camera. «In un certo senso sì; ma oggi posso parlare con maggiore libertà perché, dato il posto che occupo, non mi si può accusare di patriottismo di assemblea». Missiroli era disposto a vedere qualche fondamento nelle lagnanze di Leone, ma si provò a spiegare: «Ci sono dei pregiudizi che non si riesce a dissipare, perché il grande pubblico vede sempre le ombre e quasi mai le luci. E poi ignora tante cose...». «Ma fategliele sapere!», scattò Leone continuando a dire che purtroppo la pubblica opinione indulge facilmente a una deteriore visione del potere come fonte di prerogative e privilegi, e insistette sulla necessità di «aiutare il popolo a liberarsi da questa visione unilaterale e superficiale...». A questo punto fu Missiroli ad interrompere: «Giusto, e ben detto; sennonché i partiti... ». Allora mancò poco che Leone si arrabbiasse: « I partiti! — rispose vivacemente — ma i partiti in un regime democratico sono una realtà insopprimibile e necessaria. Essi devono essere centri di propulsione e diffusione di determinate ideologie, nuclei di attrazione dei cittadini, che si orientano su talune fondamentali linee politiche, scuola di educazione civica e politica, tramite — anche per i problemi contingenti — fra l'opinione pubblica e il Parlamento...», e così via. Sarebbe fare un torto a Leone figurarsi che i partiti egli li vedesse davvero autentici esemplari dell'idea platonica che ne stava tracciando a Missiroli. Più giusto è immaginare che alla stregua di tanti uomini politici dei giorni nostri egli fosse portato a riversare sulla stampa che parla di malanni la colpa dei malanni quali esistono. E' il ragionamento di chi rimprovera al termometro di registrare la febbre, come se una febbre non registrata cessasse di esistere. E' una disposizione d'animo abbastanza diffusa nella classe politica, questa sostanziale insofferenza nei confronti della stampa la quale è vista, non già libera, ma naturaliter destinata a difendere il potere aiutando il buon popolo a liberarsi dalle sue visioni unilaterali e superficiali. Dirò più avanti quella che mi sembra la morale da trarre da questa concezione evidentemente condivisa da Leone, come rivela la sua intervista a Missiroli; per ora passo a un altro aneddoto che mi pare si debba tenere anch'esso in conto per capire meglio la vicenda di questi giorni. La sera di mercoledì 22 dicembre 1971, Leone dibatteva in famiglia se accettare o non accettare la candidatura alla presidenza della Repubblica che i quadrumviri Andreotti, Forlani, Spagnolli e Zaccagnini erano venuti ad offrirgli nella sua abitazione di allora, al quarto piano di via Cristoforo Colombo 179, a Roma. Usciti i delegati, il probabile sesto presidente rimase nel suo studio domestico, in poltrona, difendendosi da un principio di bronchite con l'aiuto di un plaid nel quale si era avviluppato. C'era la moglie, Vittoria; il figlio Mauro; due giovanotti amici e coetanei di Mauro. Per tutto il tempo della conversazione, agli onesti dubbi del marito, Vittoria non rispose; in pratica parlarono solo i tre giovanotti. «Mio marito — dice infatti Vittoria di Giovanni — usa ascoltare volentieri i giovani. Spesso esce soddisfatto da certe discussioni con il suo primogenito. Su certe cose si lascia persuadere». Quel mercoledì sera, 22 dicembre 1971 San Flaviano, tacendo Vittoria, Giovanni infatti si lasciò persuadere da Mauro e dai suoi giovani amici, annunciando alla moglie come conclusione: «Domani è la tua festa, è Santa Vittoria, ed è il ventiseiesimo anniversario del nostro primo incontro. Mi porterà fortuna, accetto la candidatura». Lo scena famigliare è molto bella, intenerisce, e sarebbe dovuta apparire un buon augurio per un uomo come lui, tutto casa e presidenza, tutto famiglia e potere pubblico: ma la politica è una cosa diversa e il dovere dì un uomo di Stato è più grande e terribile. Di qui la piccola morale che mi sembra dover trarre dai due episodi. Sarà magari spiacevole, ma l'uomo pubblico ha il dovere di tendere l'orecchio alla stampa la quale rappresenta la pubblica opinione, più che ai suoi cari, in famiglia. Si sente dire che Leone è stato abbattuto da una campagna di stampa condotta principalmente da Camilla Cederna e dal suo valido supporter dell'Espresso Gianluigi Melega, e chi tiene la stampa nel conto che Leone mostrava di averne nella sua intervista a Missiroli può esserne sconcertato o scandalizzato. Ma sono le voci che un uomo pubblico deve ascoltare, più che quelle di un figlio e dei suoi giovani amici, se non altro perché — checché si creda — sono assai meno interessate.

Luoghi citati: Roma, Santa Vittoria