L'umore della base del pci fu determinante per leone? di Paolo Garimberti

L'umore della base del pci fu determinante per leone? Perché Berlinguer chiese Patto "risolutore,, L'umore della base del pci fu determinante per leone? Il segretario comunista a Bologna ha detto che la capacità di iniziativa del suo partito viene dai "legami profondi con la classe operaia che esige giustizia e moralità" ROMA — L'umore della base, i risultati non certo incoraggianti delle « amministrative » del 14 maggio e degli stessi referendum hanno avuto un peso determinante nella decisione del pei di chiedere le dimissioni di Leone. E' stato dopo il 14 maggio che Berlinguer ha ammonito il partito a non aver paura «dell'agonismo (...) di andare, quando è necessario, anche a momenti di tensione». Ed ora, come ha detto lo stesso Berlinguer a Udine, il pei rivendica il merito dell'» a*to risolutore » della caduta del Presidente, affermando che « questa capacità di decisione e di iniziativa ci viene dai nostri legami profondi con la classe operaia, con i lavoratori, con le masse popolari, con le loro esigenze di giustizia e di moralità ». Il pei, dunque, ha messo da parte la « virtù politica della prudenza » e il suo segretario fa capire agli iscritti che questa è stata l'ultima volta. Ritorna ad essere un partito più di lotta che di governo? Forse la direzione pensa diversamente, ma certo è stata questa la richiesta pressante che, nelle ultime settimane, è salita dalla base al vertice attraverso le lettere ai giornali del partito e le riunioni, « critiche e autocritiche », delle sezioni. « Chi crede nel socialismo ha bisogno che gli si spieghi meglio l'attuale linea del partito, che cioè non si tratta di socialdemocratizzazione, ma di una grande e originale impresa rinnovatrice », scriveva a Rinascita (9 giugno) Nicolò Lucolano della sezione di Torbellamonaca a Roma. «La de — incalzava sull'Unità del 14 giugno Giuseppe Angotta da Marsala — è stata il partito dei Tambroni, degli Sceiba, dei Gava, dei Fanfani, dei Gioia, dei Lima, e tale rimane». E aggiungeva: «Perciò, inconcepìbile e incomprensibile è apparsa la impostazione della propaganda elettorale del nostro partito, obiettivamente tesa di fatto a scaricare questa de di tutte le sue responsabilità storiche ». « Queste difficoltà di comprensione della linea del partito sono cominciate dopo il voto del 20 giugno 1976, però si sono acuite da quando siamo nella maggioranza », mi dice Giovanni Carapella, segretario della sezione comunista di Ponte Milvio, la sezione « nobile » alla quale è iscritto Enrico Berlinguer. «I militanti — spiega Carapella — vogliono segni tangibili di novità, vogliono la prova che la partecipazione comunista alla maggioranza non lascia le cose come stanno, non è un fatto di routine politica, ma rappresenta fattivamente un salto di qualità». Carapella non mostra alcuna reticenza nell'ammettere che non pochi militanti hanno votato « si » per i referendum: « Conosco più di un caso: è stato un sì politico, un voto punitivo per il partito ». A Villa Gordiani, sezione di un grande rione popolare, il segretario Luciano Carli è sintonizzato sulla stessa lunghezza d'onda: « La nostra linea è giusta, ma bisogna gestirla in modo diverso. Dobbiamo ottenere risultati più evidenti, dobbiamo dimostrare che siamo un partito di massa capace di imprimere svolte autentiche nella vita del Paese ». Secondo Carli è soprattutto sul piano economico che la gestione della linea del partito si è rivelata sbagliata e ha portato a « sfasamenti nei rapporti con la gente ». « La linea dell'austerità, dei sacrifici è stata intesa in senso troppo economicistico — spiega —. Invece dobbiamo far capire alla massa che è l'unica via per arrivare ad un autentico mutamento delle condizioni di vita, non solo dell'assetto economico del Paese ». Ma, lamenta un altro giovanissimo dirigente di sezione, «poi tocca a noi andare a spiegare agli operai perché non possono o non devono guadagnare centomila lire in più al mese; e ti garantisco che è duro, molto duro ». Questi segretari di sezione, quasi tutti sotto i trent'anni, tutti preparatissimi (che si discuta di economia o di internazionalismo, di edilizia popolare o di marxismo-leninismo col trattino, come piace ai sovietici, senza, come preferisce il pei) parlano come se avessero mandato a memoria un manuale del perfetto « berlingueriano ». Ma il linguaggio del militante di base, o anche degli iscritti poco praticanti la vita di sezione, è differente e riflette una diversa concezione del partito e del suo ruolo, o, quantomeno, una concezione che si evolve molto lentamente. Ed è da questo scontro di linguaggi e concezioni diversi che nasce quel dibattito che anima il pei da due anni ormai, ma che si è fatto molto più acuto e perfino aspro negli ultimissimi mesi. Come dice un « comunista difficile », Umberto Terracini nella sua « Intervista » recentemente pubblicata da Laterza « la politica del compromesso storico presuppone, perché possa convincere e conquistare grandi masse, risultati e frutti sostanziosi in termini di trasformazione della società ». Finora, invece, questi frutti non ci sono stati, o sono stati molto modesti, e allora la base si smarrisce, comincia a chiedersi se il partito non imponga troppe rinunce non soltanto in termini di rivendicazioni economiche, ma anche in termini di contrapposizione dialettica agli altri partiti, soprattutto alla de. «Così come è stata intesa finora la politica unitaria non funziona — dicono unanimi i segretari delle sezioni —. Troppo spesso siamo soltanto noi comunisti a sostenere il peso di certe campagne. Prendiamo la campagna per i referendum: eravamo solo noi ad attaccare i manifesti per il no; i socialisti, magari, attaccavano manifesti per il sì e certi dirigenti democristiani di quartiere facevano sottovoce campagna per il sì». A Ponte Milvio raccontano che, il giorno del voto, certi seggi non si sarebbero neppure aperti se la sezione comunista non avesse fornito in fretta e furia gli scrutatori per sostituire gli assenti di altri partiti. « Qui — dice Carapella — c'è il problema reale di un partito che, avendo enormi potenzialità, ha premuto l'acceleratore così forte e così a lungo che il motore si è ingolfato». Ora questa energia esige libero sfogo, chiede che il partito sia più aggressivo, continui insomma ad essere innanzitutto un partito di lotta, eppoi di governo. «Noi — mi hanno detto in una sezione — non possiamo essere i pompieri della lotta. Semmai dobbiamo indirizzare tale lot- te, dobbiamo centrare ^ nuovi [ modi, strumenti ed obiettivi] con i quali la lotta viene portata avanti». In via delle Botteghe Oscure l'ondata del malessere, esploso nella base dopo il voto del 14 maggio, è salita rapidamente fino al secondo piano, dove sono gli uffici di Berlinguer e degli altri maggiori dirigenti. Non si spiegano altrimenti la lettera che Berlinguer ha inviato la settimana scorsa ad Andreotti, per denunciare l'inerzia del governo in campo economico e sociale, e, tre giorni fa, l'improvvisa richiesta delle dimissioni di Leone. Due iniziative magari un po' demagogiche, ma che hanno consentito a Berlinguer di rassicurare la base da Udine: «Noi non siamo avventati (...) ma questo non ci impedisce e non ci impedirà, nei momenti cruciali della vita nazionale, di far sentire a tutti, con iniziative pronte e decise, tutto il peso della nostra forza politica e morale». Paolo Garimberti

Luoghi citati: Bologna, Marsala, Ponte Milvio, Roma, Udine