Se ci fosse stato Moro

Se ci fosse stato Moro Le dimissioni "traumatiche,, di Leone Se ci fosse stato Moro Primi marzo 1977. E' in corso a Roma, a Montecitorio, da qualche giorno la seduta congiunta delle due Camere per i procedimenti d'accusa verso gli ex ministri Gui e Tonassi: il caso Lockheed rischia di sconvolgere i precari equilibri di una democrazia già dissestata, di rompere l'ultimo filo fra i cattolici e la sinistra. Aldo Moro si alza a parlare in un'aula tesa e attentissima. La sua difesa degli imputati è globale, non distingue fra democristiani e socialdemocratici, non ripete le differenziazioni o le sfumature affiorale nella Commissione inquirente. «A tutti coloro che ci hanno preannunciato il processo nelle piazze, diciamo che non ci faremo processare»: l'ex presidente del Consiglio, che è solo da poco presidente del partito, assume su di sé tutte le responsabilità, quasi offrendosi in olocausto anticipato a quella che sarà la feroce vendetta delle Brigate rosse, l'orrendo rito sacrificale che sul corpo torturato dell'insigne statista si consumerà esattamente un anno dopo. A un certo punto — è un ricordo che ho vivissimo nella memoria — Moro richiama i sospetti e i dubbi sul Presidente della Repubblica, strappa un applauso che è poco più che di cortesia verso il Capo dello Stato a una democrazia cristiana turbata, umiliata, disorientata. L'eco di quello stanco applauso a Leone mi è tornata in mente al termine della convulsa giornata che ha portato alle dimissioni del Presidente della Repubblica. Dal punto di vista della logica morotea, della sua concezione orgogliosa del partito, l'epilogo del caso Leone, così com'è concretamente avvenuto in un qualsiasi giorno dell'estate romana, non sarebbe stato non dico tollerabile ma neanche concepibile. Uomo dei tempi lunghi e delle lunghe meditazioni, Moro avrebbe in ogni caso consigliato una diversa procedura per fare uscire di scena un uomo che, al di là dei sospetti avanzati o delle chiacchiere dilaganti, incarnava la suprema magistratura della Repubblica, espressione di un voto che aveva tagliato fuori quasi per un soffio il nome stesso di lui, dello statista pugliese, della gara presidenziale. Lo stile // rapporto fra Moro e Leone era complesso. Ma difficilmente un uomo di Staio si era comportato con maggiore stile e discrezione di quella usata da Moro verso il competitore vittorioso. Mai una recriminazione; mai un risentimento. La vicenda del dicembre 1971, una vicenda tutta da ricostruire, non incideva minimamente nei giudizi o nelle considerazioni anche confidenziali del presidente democristiano. Di fatto Moro aveva rinuncia¬ to a porre nel 77 la candidatura di fronte al rischio del ripetersi di un'«operazione Gronchi», dì fronte al solo timore di una vittoria del suo nome con l'apporto determinante delle sinistre e con la spaccatura del proprio partito. La devozione alla de — il partito di cui era stato segretario, che aveva condotto unito alla prova decisiva del centro-sinistra — era così forte nell'uomo politico pugliese da escludere anche sul piano ipotetico il «bis» di una manovra politica che tutto sommato non aveva certo giovato, nel corso del settennato gronchiano, al prestigio dello scudo crociato. Ma si aggiunga un'altra considerazione. Meridionale di famiglia piccolo-borghese, nutrito di cultura umanistica e classica, legato ai valori e ai miti della burocrazia alimentata a una certa idea dello Stato, resistente oltre le fluttuazioni o le variazioni dei regimi, Moro portava un'istintiva deferenza verso i simboli del potere, non ammetteva che lo scandalismo li aggredisse, che le campagna moralistiche li infangassero. Il timore che il Quirinale fosse coinvolto nella vicenda Lockheed era fortissimo in lui, direi più forte di lui. Lontana, da Moro, l'idea di strumentalizzare, per una qualunque personale ascesa al Quirinale, la sfortuna abbattutasi sul presidente in carica; più forte la coscienza dei danni che potevano derivare all'equilibrio e all'intreccio complessivo delle istituzioni da un cedimento agli attacchi o alle rivelazioni di stampa. Sotto questo profilo c'era nel meridionale Moro qualcosa di simile a un dato caratteristico del piemontese Giolitti: l'impassibilità davanti agli attacchi, l'imperturbabilità, che a taluni poteva sembrare cinismo, rispetto ai fautori delle questioni morali. Non sono in grado di confermare o di smentire, pur negli stretti rapporti di amicizia che mi unirono ad Aldo Moro (sono passate poche settimane dalla sua morte e sembrano secoli), se il presidente della de avesse fatto giungere un discreto consiglio di dimissioni spontanee al Presidente della Repubblica, così come aveva fatto Ugo La Malfa tanti mesi prima della convocazione della direzione comunista. Ma un gesto simile, cauto, discreto, silenzioso, gli assomigliava. Probabilmente — e un accenno non mancò in una nostra conversazione di febbraio — l'occasione ideale sarebbe apparsa a Moro quella dell'inizio del semestre bianco: richiamarsi a una chiara e meritoria presa di posizione dello stesso ex presidente del Consiglio Leone, promotore di una modifica costituzionale circa l'abolizione di quell'infausto semestre e la non rieleggibilità del Capo dello Stato, informare tempestivamente i partiti della sua volontà di lasciare il Quirinale all'inizio di quel tunnel, svuotare in partenza la campagna crescente, e ormai inarrestabile, degli attacchi o delle insinuazioni attraverso la comunicazione di un ritiro, tanto meditato quanto politicamente utile. Certo è che Moro si fece garante, nel discorso ai gruppi parlamentari de di fine febbraio, che in quei sei mesi non ci sarebbe stata da parte dei comunisti richiesta alcuna di forzare l'equilibrio politico. Alla scadenza di auel semestre, in ogni caso, Moro aveva guardato: con, o senza, la certezza delle dimissioni anticipate di Leone. Un ultimo ricordo. Più il traguardo del Quirinale si avvicinava per Aldo Moro — parlo del febbraio e della prima metà del marzo '78 — più il diretto interessato sembrava guardarlo con distacco e quasi con un fondo di incredulità, che solo l'immensa tragedia poi abbattutasi su di lui ci aiuta in qualche modo a capire. Ora che la gara per la presidenza è aperta, mi tornano in mente più i silenzi che le parole di Moro, più le sue esclamazioni dubitative che i suoi accenni espliciti alla questione. Passione Talvolta ritenevo che la passione politica fosse in lui così forte, così dominante da sconsigliare ai suoi occhi il passaggio ad una carica che, per quanto importante, conserva un carattere essenzialmente rappresentativo nella logica di una Repubblica parlamentare come la nostra. Capo ormai riconosciuto da tutti di un partito difficile e composito, si poteva pensare che guardasse ancora al partito, e a quanto il partito avesse bisogno di lui, prima di compiere la opzione definitiva per la corsa al Quirinale. Il rapporto Einaudi-De Gasperi, il rapporto Saragat-Moro erano stati dominati dalla figura del secondo piuttosto che del primo; e lui, coinvolto direttamente per la stagione pur così ricca e feconda del centro-sinistra, lo sapeva benissimo. Ma oggi che riguardo a quelle conversazioni con l'insegnamento della tragedia del 16 marzo — quella che tutti abbiamo vissuto come una tragedia nostra, come qualcosa che ci he ferito nella nostra coscienza, umiliato nella nostra dignità —, oggi che tutto è diverso da allora, mi domando se non ci fosse in Moro un oscuro presentimento del dramma che in lui si sarebbe consumato e che per tanta parte è lesalo al dramma del processo Lockheed. «Insondabile» era un aggettivo che Moro amava molto, e «insondabile», e del tutto indimostrabile, resta questa nostra sensazione. Ma come negare che nella tristezza del volto di Moro, tante volte oggetto di caricature volgari o di battute grossolane, ci fosse un presagio di morte? Giovanni Spadolini

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