Nella gabbia di parole di Giovanni Bogliolo
Nella gabbia di parole Nella gabbia di parole Maurice Blanchot: «L'attesa, l'oblio», a cura di Milo De Angelis, Ed. Guanda, 120 pag., lire 5500. Quando ci si avvicina al pensiero critico dì Maurice Blanchot, colpisce l'originalità del passaggio — immancabile e laboriosamente mediato — dal pensiero criticato al pensiero criticante, la ripresa e l'assunzione, a livello di riflessione personale, dello scarto residuo tra l'altrui e il proprio pensiero: non una ripresa di temi o di suggestioni, ma la ripetizione, in condizioni sempre mutate di ideologia e di cultura, di quell'«ìnsensato» eppur inevitabile gioco della scrittura che nella sua presuntiva perfettibilità pretende e sollecita queste infinite reiterazioni. L'attività critica si prolunga dunque in un'attività creativa che, nella visione fatalistica e negativa di Blanchot, non può avere nessuna ambizione concorrenziale; il critico da lettore si fa scrittore non per integrare il «vuoto costitutivo» dell'opera, ma soltanto per vivere fino in fondo l'esperienza della sua impossibilità e per adeguarsi a sua volta a quell'incongruo destino che costringe l'uomo a dire la vita con lo strumento di morte del linguaggio. L'unico vantaggio che possiede il critico è quello di accedere alla creazione romanzesca col viatico di una lunga riflessione preventiva sulle condizioni costitutive del romanzo. Ma si tratta di un falso vantaggio: sapendo che il linguaggio non è uno strumento di rappresentazione e di definizione, ma soltanto un'emergenza fenomenica che si sovrappone, negandola, alla realtà, non potrà che assegnare al romanzo il compito di esprimere questo dramma di fondo. Zona impervia e astratta quanto altre mai sono state sondate dalla letteratura, questa assoluta ineffabilità del reale è il luogo di una tragedia concreta e sorprendentemente «realistica»; per dirla, Blanchot non ha bisogno di ricorrere a lucidi paradossi dell'intelligenza o alle situazioni - limite dell'allegoria: gli basta ridurre alla minima evidenza geometrica la scena (una camera d'albergo, rettangolare, con un divano, un tavolo e due finestre) e alla pura evidenza fisica due presenze (un uomo e una donna). Ma sono appunto queste presenze a mutarsi in dolorose assenze non appena esse tentano di circoscriversi reciprocamente in una gabbia di parole: l'irrimediabile separa¬ zione che sussiste tra la coscienza e gli oggetti della realtà rivela un'ancora più dolorosa separazione tra la coscienza e se stessa. Il romanzo è il luogo di emergenza massima di questa aporia, perché è nell'atto della trascrizione letteraria che la realtà rivela la sua inafferrabilità, la coscienza chiara sente il peso di tutto il residuo che le parole non riescono a recuperare, il linguaggio manifesta tutto il suo potere di negazione e di morte. Anche L'attesa, l'oblio, che, disincarnato in pura narratività, non conserva più legami apparenti col genere romanzesco: qui la riflessione ha già preso atto della irriducibilità del reale e si sposta sul «prima» dell'attesa e sul «dopo» dell'oblio, quasi volesse delimitarne almeno i confini temporali. Ma anche questi tempi sospesi rivelano il loro potere alienante e il testo — uno dei più ardui e rigorosi della ricerca letteraria contemporanea — non può che tradursi in un verbale di questo duplice ulteriore, ma non definitivo, fallimento della conoscenza: l'attesa è «un atto neutro, avvolto su di sé, chiuso in cerchi di cui il più interno e il più esterno coincidono» e l'oblio «è rapporto con ciò che si dimentica, rapporto che, rendendo segreto ciò con cui c'è rapporto, detiene il potere e il senso del segreto». Giovanni Bogliolo
Persone citate: Blanchot, Maurice Blanchot, Milo De Angelis
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