In quel momento Praga esploderà di Paolo Garimberti

In quel momento Praga esploderà In quel momento Praga esploderà Jiri Hajek: « Praga 1968 », Editori Riuniti, 244 pag., lire 3200. Senza questo libro, soprattutto senza il lucido ed avvincente capitolo conclusivo, forse non sarebbe mai stato possibile mettere a fuoco il filo sottilissimo che lega la «Primavera» praghese del 1968, la « Carta » di Helsinki, firmata nel 1975 da trentacinque capi di Stato e di governo, e la « Carta 77 », nata in Cecoslovacchia, nel gennaio dell'anno scorso, dalle ceneri della « Primavera ». Due di questi avvenimenti Jiri Hajek li ha vissuti da protagonista: durante la «Primavera» egli era ministro degli Esteri di Cecoslovacchia e, al di là delle cariche formali, uno degli animatori del nuovo corso dubcekiano. Della « Carta 77 », il movimento di opposizione che ha raccolto quasi mille adesioni in diciotto mesi pur in un Paese tra i più ossessivamente polizieschi, Hajek fu subito nominato portavoce insieme con Vaolav Havel e Jan Patocka. Ora nel libro, significativamente pubblicato dalla Casa editrice del pei, Hajek — dopo una diligente, ma non inedita ricostruzione della nascita e dello sviluppo della « Primavera » — spiega nel capitolo conclusivo come la formulazione degli accordi di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa sia stata influenzata dalle vicendel del '68 in Cecoslovacchia. Tali accordi sottolineano difatti (VI Principio) la validi- tà universale della «non ingerenza » tra Stati « senza riguardo ai loro rapporti reciproci », e affermano che le regole della coesistenza pacifica devono essere rispettate anche all'interno di alleanze e tra nazioni con lo stesso regime sociopolitico. Sostiene Hajek: firmando gli accordi di Helsinki l'Urss e gli altri Paesi del Patto di Varsavia hanno rinnegato formalmente la cosiddetta « dottrina Breznev sulla sovranità limitata ». La terza parte del sillogismo politico di Hajek è che ora ai dirigenti dei cinque Paesi — che intervennero a Praga nel '68 — e ai capi, così poco amati, della odierna Cecoslovacchia «normalizzata» corre l'obbligo di «riconsiderare l'intervento del '68 e le sue conseguenze». Ma da chi deve e può partire questo processo di revisione autocritica? Non certo dell'attuale direzione cecoslovacca, incatenata com'è dalla sua complicità nella « normalizzazione », e neppure dal Cremlino, che non può rinnegare se stesso. Hajek conta invece su una « evoluzione sociale nell'Urss e negli altri Paesi della comunità». Di tale evoluzione Hajek crede di intravedere le premesse: la comparsa in quei Paesi dì «una gioventù più pragmatica e meno tributaria di dogmi e schemi ormai passati di moda»; l'integrazione economica del Comecon, che favorisce movimenti di riforma e d'opposizione ai modelli staliniani; la prevalenza di tendenze riformistiche e democratizzanti nel movimento comunista internazionale, partite proprio dal rifiuto dell'intervento del '68 e affermatesi poi come modelli alternativi. Hajek, però, si rende conto che « la comprensione dell'assurdità dell'intervento del '68 » non sarà « un'impresa facile» per i dirigenti dell'Est e dell'Urss sopra tutti. Per primi la ostacolano gli stessi capi cecoslovacchi di oggi, i quali, potendo provare che il loro regime garantisce una relativa calma interna, riescono a procacciarsi un atteggiamento benevolo da parte dei sovietici e degli altri dirigenti dell'Est. C'è nella Cecoslovacchia "normalizzata", secondo l'efficace descrizione di Hajek (e, ahimé, quanto veritiera per chiunque conosca il Paese), un «ballo in maschera », tragicamente grottesco, ma che funziona come una sorta di anomalo patto sociale: « Permettendo al cittadino di avere un livello di vita relativamente elevato, la direzione e il suo apparato gli chiedono soltanto di astenersi dal manifestare opinioni politiche non conformi alla linea ufficiale e di prendere parte ad alcuni atti obbligatori, d'altronde relativamente poco numerosi, del rituale dell' "unità" incrollabile del partito e del popolo». Questo quadro, esattissimo fino al '76, ha preso ad incrinarsi come il livello di vita ha cominciato ad abbassarsi. Hajek, perciò, ha buon gioco nel prevedere che l'artificiosa calma sociale finirà quando esploderà la crisi economica di un Paese totalmente dipendènte dagli aiuti esterni. « Carta 77 » è già un sintomo di inquietudine socio-economica strisciante: è un risveglio dello spirito del '68, un segno inequivocabile che la lezione della « Primavera » è stata calpestata dai carri armati invasori, ma non cancellata dalla coscienza popolare. Paolo Garimberti