Storia di cinque presidenti di Nicola Adelfi

Storia di cinque presidenti Storia di cinque presidenti Alla spartana austerità di Enrico De Nicola successe l'energica discrezione di Luigi Einaudi - Il settennato di Giovanni Gronchi fu oscurato da ombre, che velarono anche la presidenza di Antonio Segni - Il disegno politico di Giuseppe Saragat Trentadue anni fa, quasi di questi giorni, il 26 giugno 1946, venne eletto in meno di un'ora il primo Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola. Ebbe V80 per cento dei voti. Era un personaggio schivo, ombroso. Quando gli amici, soprattutto Benedetto Croce, cercavano di persuaderlo ad accettare l'incarico, De Nicola poneva ogni volta molte e precise condizioni: la più importante era che fosse eletto quasi all'unanimità. Da Napoli arrivò a Montecitorio sei giorni dopo, il 2 luglio, senza scorta e l'accompagnava solo il nipote, l'avvocato Martinelli. A riceverlo a mezzogiorno sul portone di Montecitorio c'era il presidente dell'Assemblea Costituente, Saragat, e poche persone. Nessuna fanfara, nessun cerimoniale. Al Quirinale non volle mai mettere piede. Occupava poche stame in un palazzo adiacente il Senato, ed erano stanze grigie, quasi mai raggiunte dal sole. De Nicola vedeva poche persone, talora verso l'ora del tramonto si faceva condurre in macchina sulla piatta spiaggia di Ostia e lì camminava a lungo, accigliato, sempre più stretto dalla solitudine, con un rimpianto sempre più acuto per la libertà perduta, per i luoghi e gli amici di Napoli. Permaloso di sua natura, periodicamente minacciava di dimettersi per uno sgarbo supposto o per un'intenzione che giudicava malevola nei suoi riguardi. E tutte le volte De Gasperi con molti argomenti e anche con astuzie doveva faticare giorni interi per convincerlo a rinunciare alla sua sincera ansia di lasciare la Presidenza della Repubblica e di tornare quale era stato tutta la vita, un privato cittadino, un celibe assistito da una governante tedesca. L'Italia allora era un Paese molto povero e la Presidenza della Repubblica di De Nicola fu improntata a un senso vigile, costante di spartana austerità. Valga un esempio. De Nicola teneva sempre a portata di mano fogli di francobolli acquistati col suo denaro, ed esigeva che la sua corrispondenza privata fosse sempre affrancata con quei francobolli. Se sorgevano dubbi sul carattere pubblico o privato di una lettera, De Nicola voleva esserne informato, e quasi sempre decideva a spese del suo denaro. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948 venne eletto in appena quattro giorni di votazioni Luigi Einaudi. Anche lui ebbe esitazioni prima di accettare la candidatura: specialmente, come racconta Andreotti, «per il difetto di deambulazione che egli pensava non gli conferisse la prestanza necessaria nelle pubbliche cerimonie e particolarmente nelle riviste militari». Tuttavia quel professore anziano, magro, claudicante, resta ancora oggi il miglior Presidente della nostra Repubblica. Lui monarchico, al pari di De Nicola, riuscì a conciliare i monarchici con la Repubblica. Esperto di diritto e dì economia, i suoi interventi, per quanto discreti, erano sempre molto energici quando si trattava di spese di denaro pubblico proposte in maniera incoerente o spensierata: anche se a proporle fosse lo stesso Parlamento. A raccomandare la saggezza delle opinioni di Einaudi resta la testimonianza dei documenti vergati di suo pugno e raccolti in seguito col titolo «Lo scrittoio del presidente». E' una summa molto utile per rendersi conto con quanta oculatezza e con quanto scrupolo, oltre che con aderenza alle realtà e al buon senso comune, Einaudi vegliasse dal Quirinale sul corretto funzionamento delle istituzioni pubbliche. Di lui si diceva che fosse avaro di sua natura. Forse è esatto. Resta il fatto che, grazie anche alla sua avarizia nei confronti delle spese di denaro dello Stato, l'Italia potè completare l'opera di ricostruzione e lanciarsi sulla via dello sviluppo economico. L'11 maggio 1955 fu eletto il terzo Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, e vi restò fino al 10 maggio 1962. Ora è una larva umana novantenne. Ma allora, quando fu eletto, si disse che finalmente l'Italia aveva un presidente di aspetto prestante. Oratore facondo, militante della sinistra democristiana, di Gronchi in positivo si può dire che assecondò la spinta degli italiani a farsi sempre più europei, a inserirsi tra le prime nazioni del mondo per il ritmo della crescita economica, e a maturare una maggiore coscienza democratica. Tuttavia il settennato, specie negli ultimi anni, fu anche offuscato da ombre. Ci furono scandali e denunce alla magistratura forse non meno gravi di quelle che ora vengono sollevate contro Leone. Per quanto riguarda la politica, l'incidente che più nocque a Gronchi fu l'appoggio dato con ostinazione al presidente del Consiglio Ferdinando Tambroni nelle settimane in cui il governo, con l'appoggio dei fascisti, cercò di imporre al Paese un governo autoritario di destra, determinando sanguinosi conflitti a fuoco in diverse città italiane. I morti furono una dozzina, e si temeva che il Paese fosse a un passo dalla guerra civile. Ai primi di maggio 1962 Antonio Segni, un sardo esile e col capo bianco, andò a insediarsi al Quirinale. Minimo fu lo scarto dei voti a favore, appena il 51,8 per cento. Segni si dimise dopo due anni e mezzo per motivi di salute, una trombosi. Fu un conservatore e un moderato. Volle circondarsi specialmente di uomini della sua isola, e formavano tutt'insieme una specie di associazione di fatto che venne chiamata «la brigata Sassari». Quando la trombosi colpì Segni al tavolo di lavoro, negli ambienti politici ed economici della destra si cercò di dare al male una impor¬ tanza minore, passeggera. Ecco i titoli dì alcuni giornali in quei giorni: «Rinnovata offensiva contro il Quirinale», «Nuvole sul Quirinale», «Giù le mani dal vertice dello Stato», «Pressioni, interessi di parte, insensate e frenetiche ambizioni: bisogna imporre un energico fermo». Giuseppe Saragat, il quinto Presidente della Repubblica, fu eletto il 28 dicembre 1964, dopo ventuno giri di votazione che tennero impegnate le Camere per tredici estenuanti giornate dense di contrasti e dì mormorazioni. I tempi delle vacche grasse accennavano già allora a finire, e a metà del settennato di Saragat il nostro Paese doveva entrare, a cominciare dai moti del 1968, nella lunga stagione delle violenze. Curiosamente era la prima volta che il Capo dello Stato era un socialista, e proprio allora emersero in maniera spesso drammatica contraddizioni e conflitti sociali. Complessivamente la politica del presidente Saragat non ebbe successo. Egli aspirava a vedere uniti in una sola casa i due rami principali del socialismo, e non vi riuscì. Durante i cinque anni di governo di centro-sinistra retti da Aldo Moro, il Paese per un lato fu sconvolto dal mito del consumismo e per un altro vide la sua economia indebolirsi gradualmente: sicché le grandi riforme sociali, capaci di fare dell'Italia un paese moderno ed equilibrato, saldamente democratico nella coscienza dei cittadini, finirono quasi tutte in un catalogo di buo¬ ne intenzioni, definito «il libro dei sogni». Sul finire del suo settennato Saragat ebbe anche lui a sentire il soffio dei venticelli della calunnia. Non mette conto parlarne neppure di sfuggita. Taluni, anche fra gli amici, lo descrivevano fisicamente devastato. Che fossero tutte malignità, lo dimostra il fatto che oggi, a 80 anni, Saragat si presenta diritto come un fusto, ricco di energie, integro nella mente e nel fisico in maniera invidiabile. Nicola Adelfi

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