Le cose più grandi di lui di Vittorio Gorresio

Le cose più grandi di lui DA TANTA SIMPATIA ALL'IMPOPOLARITÀ Le cose più grandi di lui Ottimo padre di famiglia, uomo fedele alle amicizie, al vertice dello Stato ha avuto incertezze e debolezze Dall'ottobre del 1975, è sembrato vivere al Quirinale come presidente quasi esautorato, anche dal partito E' il presidente che al suo esordio era stato accolto con la maggiore simpatia, ed è quello che esce dall'incarico in un'atmosfera di grave impopolarità, al minore livello di gradimento. Al momento dell'elezione, il 24 dicembre 1971, Leone aveva molto per piacere: una solida fama come giurista, i buoni servigi resi al Paese come presidente della Camera e poi a capo di due governi di transizione; quel tanto di distacco necessario dall'apparato della de, un tradizionale buon senso, un gusto tutto napoletano per l'ironia, una straordinaria, quasi incredibile comunicatività; una assai favorevole immagine famigliare attorno a sé: una moglie bella che egli aveva conquistato a forza di lettere d'amore, e tre bei figli che esibiva con orgoglio. Sono annotazioni di Raffaello Uboldi, su Epoca del 23 novembre 1977, che erano seguite da una domanda che già allora si imponeva: dove, dunque, ha sbagliato Leone, o per meglio dire quali sono stati i suoi difetti principali? I primi due anni della sua presidenza furono abbastanza sereni. Leone aveva dovuto sciogliere in anticipo le Camere e indire elezioni anticipate nel 1972, ma il provvedimento sembrò imposto dalle difficoltà di convivenza dei partiti nell'ambito del centro-sinistra. Ci fu un governo Andreotti, con il quale i liberali rientrarono nella maggioranza e a molti parve che in Italia fossero possibili equilibri diversi, non del tutto sgraditi a quella parte della pubblica opinione che si rallegrava nel vedere finalmente realizzata la possibilità di un'alternativa democratica. Non dispiaceva, d'altra parte, che i temi dominanti nel pensiero di Leone fossero allora i più rassicuranti, la stabilità dei governi, i poteri presidenziali, la riforma della magistratura, l'attività e la parte dei sindacati in Italia, tutti temi e problemi che apparivano in sintonia con la sua personalità di giurista. E' come dire che egli stava facendo il suo mestiere di presidente come se fossimo stati in tempi di ordinaria amministrazione; ma in realtà Leone si trovava ad affrontare i problemi di anni straordinari. In altri tempi, il suo contegno sarebbe apparso normale, e in qualche modo anche gradevole: quell'uomo tutto famiglia e tutto amicizie avrebbe potuto rappresentare al vertice dello Stato un esemplare congeniale alla grande massa degli italiani. Si sapeva che aveva organizzato la sua giornata in modo ineccepibile: al Quirinale, la mattina, gli incontri protocollari, nel pomeriggio ore di studio in biblioteca, e la sera la firma dei documenti ufficiali; la sera, a cena, la riunione di famiglia, poi una breve passeggiata nei giardini in compagnia del figlio Mauro o di Nino Valentino, suo portavoce e consigliere politico. Per le vacanze, soggiorni alternati a Castelporziano, a San Rossore, a Napoli o a Capri, e distensive crociere sulle barche di amici, come i fratelli Antonio ed Ovidio Lefebvre, napoletani, non ancora saliti alla ribalta dello scandalo Lockheed. Poteva apparire un modello di padre di famiglia e di fedeltà ai vecchi amici, ma purtroppo sono stati proprio la famiglia e gli amici a metterlo nei guai. In casa, il figlio primogenito Mauro era l'oggetto della maggiore sua tenerezza, che era giudicata debolezza dall'esterno, anche da parte degli stessi democristiani. Si cominciò ad affermare che Mauro (« Se mi chiedesse la luna andrei a prendergliela», diceva il padre con affetto eccezionale) trattava gli affari di Stato come se fosse forte di un'incomprensibile delega. Si diceva che Mauro avesse in Quirinale uno studio dove dovevano passare gli uomini politici, i grand commis dello Stato, gli spericolati finanzieri. Ebbe la fama dell'eminenza grigia della presidenza, ciò che all'immagine della presidenza non giovava. Poi, c'erano gli amici, i Lefebvre anzitutto. Di uno di loro, Antonio, Leone era stato collega nelle facoltà universitarie di Bari, Napoli e Roma, ed anche nella commissione per il nuovo Codice della navigazione. Certe colleganze accademiche sono come le relazioni fra compagni di scuola: uno se le porta poi appresso per tutta la vita, anche se la sorte personale è cambiata. C'è chi si è dato alla politica interna e chi agli affari internazionali; ma un vincolo rimane, frutto di lunga conoscenza, ed è sempre difficile dire se è solamente affettivo e disinteressato da ambo le parti. Quando si seppe delle cattive frequentazioni di Leone, nei primi tempi ci fu anche la tenden¬ za ad attribuire a lui solo una santa ingenuità. Stava però avvenendo uno strano fenomeno. Si veniva cambiando il rapporto carismatico fra gli italiani e la de, e nel momento stesso che si stavano accentuando le critiche contro il partito di maggioranza — che Leone, di fatto, rappresentava al vertice — Leone, a mano a mano, veniva abbandonato dalla de. Se la famiglia o gli amici avevano alla fine compromesso Leone, il suo stesso partito, per usare un'espressione del linguaggio marinaresco, lo « mollava in bando », praticamente lo sacrificava nel tentativo di dissociare la responsabilità. Sono almeno tre anni che la de affetta di non riconoscersi più nel Capo dello Stato che aveva voluto eleggere nel 1971, ed i motivi per la separazione sono apparsi tanto evidenti quanto pretestuosi. Il 15 ottobre del 1975, Leone indirizzava un messaggio alle Camere, come era nel suo diritto costituzionale. Segnalava il bisogno di leggi più tempestive e coordinate, di un'amministrazione pubblica più umana ed efficiente, il problema del Sud e quelli dell'ordine pubblico, il diritto di sciopero e la situazione dell'economia, la corruzione e la lottizzazione delle cariche, i rapporti fra governo, Parlamento e presidenza della Repubblica, e così via. Erano tutti concetti ineccepibili, e a rileggerlo oggi serenamente non si può dire che fosse un cattivo messaggio. Ma il difetto di fondo era che il presidente lo aveva anticipato in una intervista a Michele Tito, allora vicedirettore del Corriere della Sera, senza prima consultare il governo, e questo fu il pretesto che provocò l'ira di Moro presidente del Consiglio (il quale impose tagli e censure) e del Parlamento (che archiviò il messaggio senza neppure aprire un dibattito nel merito). Praticamente, è da allora che Leone è stato lasciato solo al Quirinale, come un presidente esautorato che il partito-guida della nazione abbandona a se stesso, alla maniera di Saturno che divorava i suoi figli. Eppure, la de aveva già più di una volta giocato la carta Leone, puntando su di essa per ottenere una affermazione o per risolvere le proprie interne difficoltà. Nel 1964 lo aveva mandato allo sbaraglio indicandolo come candidato ufficiale per la elezione del quinto presidente della Repubblica, in dicembre del 1964, quando alla fine fu eletto Saragat: « Ci sono andato con la più stupida innocenza », disse un giorno Leone. Alla fine, difatti, fu mollato in bando anche allora. Ma già altre volte era stato tenuto come il jolly, la carta matta da giocare per la corsa al Quirinale: anche nel 1962 quando si combatteva la battaglia fra Segni e Saragat, era stato Togliatti a proporre a Leone di fare lo sgambetto al candidato ufficiale democristiano, Antonio Segni: « Ma come avrei potuto farlo? », dichiarò poi Leone. Gli sarebbe bastato, una certa sera, approfittando delle sue prerogative di presidente della Camera, rinviare una votazione per consentire ai gruppi di concordare sul suo nome, ma non se la senti. Se non c'era niente di male accettare per sé una candidatura che sarebbe stata di riconciliazione, era pur sempre approfittare dei suoi poteri presidenziali. A lui, giurista intemerato, sarebbe apparso un atto criminoso di interesse privato in atti d'ufficio. Quando alla fine fu eletto, nel 1971, ricordò con accenti che egli affermava non essere di orgoglio ma neppure di ipocrita umiltà, Roma. Giovanni e Vittoria Leone, durante un ricevimento in Quirinale (Foto « La Stampa ») che mai nella sua vita politica aveva cercato grandi affermazioni: « Avevo sempre presente nel mio animo la possibilità di essere chiamato ad assumere un incarico più direttamente e politicamente impegnato: tale possibilità, peraltro, non solo non avevo mai sollecitato o favorito, ma mi ero sempre augurato che non si realizzasse ». Sono parole che si possono interpretare come si vuole, anche come attestazioni di una qualche ipocrisia, ma non è questo il momento per rimproverarne Leone. La sua elezione nel 1971 fu decisa dalla de perché si uscisse finalmente da una impasse che già troppo a lungo aveva tenuto il Parlamento convocato a Camere riunite in preda ad uno dei più gravi imbarazzi della nostra storia repubblicana. Si era ben visto che la candidatura di Fanfara non sarebbe passata, e si | voleva in ogni modo uscire dalI l'imbroglio in cui si era cacciata | la de. Il nome di Leone apparve | quello che era più idoneo: già j in occasione di crisi ministeriali difficili Leone si era dimostrato | l'uomo che poteva trarre il partito democristiano dall'imbarazzo. Nello stesso spirito si pensò a lui come a un possibile presidente della Repubblica. Quando si fanno calcoli del genere, è chiaro che il discorso non è precisamente politico, che cioè non si sceglie veramente quello che si ritiene l'uomo giusto per il posto giusto, ma che si ripiega su una soluzione di comodo. Poi, la fortuna aiuti: ma questa volta la fortuna non ha aiutato. Bisogna però dire che anche la de non ha aiutato la fortuna, e che Leone è stato messo allo sbaraglio in una situazione che avrebbe dovuto essere meglio valutata. L'uomo avrebbe dovuto essere meglio considerato e soppesato: non tutti hanno le qualità per assolvere alle funzioni di Capo dello Stato. Ottimo padre di famiglia, uomo fedele alle amicizie, Leone non per questo era all'altezza di presiedere a istituzioni che nel loro complesso esigono attitudini e capacità di ben altra natura. Si può essere eletti a capi di Stato, ma non è un'elezione che conferisce a nessuno, che non le abbia, le doti necessarie ad essere un uomo di Stato. Vittorio Gorresio

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