La lezione di un teatro in esilio di Angela Bianchini

La lezione di un teatro in esilio PARIGI: INCONTRO DI AUTORI LATINO-AMERICANI E STUDIOSI La lezione di un teatro in esilio PARIGI — «Il teatro latinoamericano ha meritato il castigo dell'esilio perché rappresenta le diaspore, il suo linguaggio è totalità delle forze dell'uomo, è gesto, corpo, musica. Parola recuperata nella sua totalità, arte sociale per eccellenza. E' l'arte più. antica, quella che va verso l'etica della trasformazione dell'uomo». Sono queste le parole che risuonano in apertura del colloquio sul teatro latinoamericano di oggi, promosso dall'unità d'insegnamento e ricerca della Sorbonne Nouvelle (Paris III) in collaborazione con l'Istituto latinoamericano (Iila) di Roma: assente perché malato il romanziere del Paraguay, presidente d'onore, Augusto Roa Bastos, sono pronunciate, in sua vece, dall'altro scrittore, sempre del Paraguay, Ruben Bareiro-Saguier, quasi simbolo di fratellanza corale, collettiva, ed è stato detto, ripetuto, ribadito, dal 5 all'8 giugno, a Parigi, in questo foyer per studentesse, tutto legni scuri, fondato ai primi del Novecento da brave signore statunitensi, per promuovere, si dice nella lapide posta all'ingresso, il fiorire di armonia e di cultura. Armonia di cultura, comprensione tra i popoli? Le aspirazioni, ma non certo le realtà di questo colloquio. Registi, scrittori, critici di varie repubbliche latinoamericane, un gruppo tutt'altro che sparuto di intellettuali, che comprende esuli e no, comunque quasi sempre rifugiati volontari per periodi che variano dai tre mesi di Rafael Murilo Selva di Honduras ai quindici anni dello scrittore di teatro e poeta Arnaldo Caiveyras, passando per la regista Isabel Garma (tre anni) per Roa Bastos, per il regista argentino Edgardo Lusi, per l'autrice Griselde Gambaro, anch'essa argentina, hanno avuto qui l'occasione di guardarsi in faccia. La prima occasione di non essere dispersi in una Parigi che accoglie tutti, ma poi tutti, con quasi la stessa fretta, dimentica. Prima occasione di parlare, riunirsi, paragonare le proprie esperienze, ascoltare, anche, nelle letture teatrali serali, parte del proprio lavoro. Non più animali strani in una comunità intellettuale estremamente differenziata (appena vicini, nuovamente, alla propria identità, nei pochi festival teatrali europei, o nelle poche sale dove sono rappresentate le loro produzioni), ma protagonisti, nuovamente, seppure in forma terribilmente dolorosa, per il pubblico che li ascolta, per la estremamente efficiente organizzazione francese (Jacqueline Baldran .Angélique Levi, Isabel Garma, Laure Guille-Bataillon e il Barreiro Saguier), per la delegazione italiana che è stata addirittura guidata dal segretario generale dell'Illa, ambasciatore Perrone Capano. Eppure, le premesse erano sparute anch'esse: anzi, una sola. La frase dello specialista Raymond Cailiois, secondo il quale il teatro latinoamericano «non esisteva». Cosi, fin dall'inizio, l'atmosfera è stata politica, non incandescente, ma straziante, in aperto contrasto con lo spettacolo dei mondiali di calcio che, ogni sera, portano l'attenzione di tutti là, proprio, dove i latinoamericani vorrebbero essere. Cosi straziante che non sembra neppure giusto infierire (e infatti ciò non accade) sul regista argentino venuto direttamente dalla patria e sulla sua interpretazione del tutto ottimista della situazione culturale del Paese. Si è cercato, anzi, in tutti i modi, da tutte le parti, di sanare un conflitto insanabile: come ha detto la Garma, la cultura dev'essere atto di riparazione, il teatro deve anche scegliere il luogo come espressione di resistenza, poiché, anche senza politica dichiarata, può esìstere resistenza. In realtà, ancorché non si manchi di sottolineare come non debba esistere «politicizzazione completa del teatro», e si accentuino, di questo teatro, proprio la pratica teatrale, al punto che, a volte, il testo sembra diventare secondario, la direzione verso cui muove il teatro latinoamericano è esattamente l'opposta. Helvio Soto, cileno, nel suo Miercoles tres quartos (Mercoledì tre quarti), sposta continuamente l'asse interpretativo della situazione (in senso s artri ano) tra storia privata e prigione di Santiago, il Latin american trip di Calveyras, riproduce il viaggio di un giovane che va in cerca degli assassini di suo padre, cioè la discesa di un novello Orfeo all'inferno. Ma non può essere altrimenti; tutto, in questo caso, deve essere adattato alle circostanze. Come ha dimo¬ strato il brasiliano Boal si tratta di un «teatro di oppressi», dove gli oppressori trovano loro stessi un medium fin troppo naturale. Un regista che aveva messo su La giara di Pirandello scoprì che, per gli indiani, la giara era simbolo di siccità, mentre per gli Shoe Shine di Rio de Janeiro il simbolo dell'oppressione è il chiodo a cui appendono, alla fine della giornata, le cassettine del loro lavoro. Cosi, il teatro latinoamericano reinventa i propri simboli e anche i propri luoghi. Nella terza giornata, giunse la testimonianza più drammatica: quella del giovanissimo cileno Oscar Castro, ora esule a Parigi, che rievocava le proprie esperienze nel gruppo teatrale dell'Aleph. Aveva cominciato in collegio, un gruppo senza nome, sessanta ragazzi che non avevano mai letto niente e scrivevano le opere esattamente per il numero di attori necessario. Poi, entrarono nel gruppo anche le ragazze, scelsero il nome senza sapere neppure che cosa significava, cominciarono a far spettacoli in Cile, ma non politici, così, almeno pareva loro. La caduta di Allende li sorprese al ritorno del gruppo dall'Europa, furono lasciati in pace per un po', mettevano su una commedia (o tragedia) in cui il comandante dì una nave parlava un po' come Allende, ma negavano le so miglianze per non avere noie con la polizia. Non servi, furono arrestati. Alcuni se la cavarono con due settimane, lui, Oscar Castro, rimase due anni in campo di concentramento. Pece teatro anche 11: scrivevano commedie, ogni venerdì una nuova, per far vedere agli oppressori che il morale era alto. Tutto il campo alle sei del venerdì sì vestiva il più elegante possibile, quasi tutti recitavano, come potevano, inventavano tutta la finzione scenica, mettevano su Antigone, cose note, ma anche altre, inesistenti, che attribuivano a un certo autore, Emil Kahn, ebreo polacco, da loro inventato perché la polizia diffidava di opere che non fossero, dicevano, di autori conosciuti. Oscar Castro, un ragazzo magro e bruno, ha raccontato tutto ridendo, come un grande attore: dai tentativi del collegio alla commedia quotidiana in campo di concentramento. Faceva ridere anche il pubblico, che, però, aveva, invece, voglia di piangere. Angela Bianchini