L'America corre, ma verso dove? di Aldo Rizzo
L'America corre, ma verso dove? Volti e voci della Casa Bianca dopo il discorso di Annapolis L'America corre, ma verso dove? WASHINGTON — L'America corre, nei parchi e per le strade, sotto gli alberi e attorno ai grattacieli, secondo una moda chiamata «jogging» . Con le mani strette all'altezza del petto, in calzoncini e maglietta, corrono bianchi e negri, anglosassoni e portoricani, operai e «mattagers», prima o dopo il lavoro o nella pausa meridiana. Ecologia o nevrosi, sport o fissazione di massa, la moda, non più nuova, risulta per ciò stesso durevole, restando sufficientemente enigmatica. Altra questione — o forse la stessa — è dove corra l'America di Carter, il sistema politico-diplomatico che da un anno e mezzo incarna il potere federale e le sue proiezioni nel mondo. Ormai a un passo dalle elezioni legislative di mezzo termine, dopo le quali cominciano i preparativi per la prossima campagna presidenziale, quest'Amministrazione non ha più tanto tempo per farsi giudicare. Eppure il giudizio è ancora sospeso, come aspettando una prova decisiva in un senso o in un altro, che ancora non viene. Prima del discorso del Presidente all'Accademia navale di Annapolis, considerato un riepilogo del rapporto Usa-Urss, preoccupavano i troppi volti e le troppe voci dell'Amministrazione su temi di decisiva importanza: Vance il pragmatico, Brzezinski il duro, Young l'innovatore «terzomondista». Ma anche dopo il riepilogo, ci si domanda quale sia la vera linea di Carter. La Washington Post nega che sia stata operata una sintesi, sostiene che i toni duri e quelli concilianti si siano sovrapposti senza fondersi: «E' come se Carter avesse pronunciato due diversi discorsi». Così è in effetti; ma non tanto per le diverse e contrastanti influenze di Vance e Young da una parte e di Brzezinski dall'altra, quanto per il fatto che è la strategia carteriana in sé ad apparire scissa, o almeno segnata da due esigenze distinte e difficilmente conciliabili. Un'esigenza è quella di conservare con l'Urss un rapporto di cooperazionc realistica, da potenza a potenza, che dovrebbe esprimersi soprattutto nel negoziato sul controllo dei grandi armamenti strategici. L'altra è quella di rilanciare una politica estera ideologica, fondata sull'idealismo liberaldemocratico, capace di esercitare una pressione sull'Urss in quanto sistema di potere totalitario. Questa seconda esigenza s'inasprisce quando l'Urss senza modificare in niente l'atteggiamento repressivo interno, vi aggiunge una pratica espansiva e «destabilizzante» in aree terze, ora soprattutto in Africa. Vance è lo strumento, tecnicamente adeguato, della prima esigenza, cioè, del tentativo di negoziato realistico, che faccia salvi certi fattori essenziali della coesistenza; e Young, primo americano di colore alla testa della delegazione all'Onu, è l'ipotesi di un dialogo più aperto e franco col Terzo Mondo. Ma Brzezinski è l'ideologo di quella che appare la parte più consistente e decisiva della politica estera di Carter, ed è sempre sua, alla fine, l'influenza mag¬ giore. Lo hanno subito avvertito i russi che hanno definito quello di Annapolis un discorso «da falco», pur mostrando di riservarsi ancora un giudizio definitivo. Il fatto è che, mentre Carter s'illudeva di poter trattare con Mosca nello stesso momento in cui le impartiva pubbliche lezioni di democrazia, e lanciava segnali d'incoraggiamento all'area sovietica del dissenso, Mosca ha impiegato pochissimo tempo a intravedere nella strategia di Carter una linea di confronto. E ha agito in conseguenza. La politica del rafforzamento del patto di Varsavia e della penetrazione in Africa era cominciata, per la verità, già negli «anni d'oro» dell'idillio con Kissinger, a dimostrazione del fatto che l'Urss ha sempre inteso la distensione come un qualcosa che non impedisce spregiudicati giochi di potenza; ma tale politica non ha più conosciuto remore di fronte a Carter e a Brzezinski. Ora il disegno sovietico in Africa ha raggiunto dimensioni obiettivamente inquietanti. Può darsi che la questione zairese (dell'invasione della provincia dello Shaba) sia stata sopravvalutata, come sostiene per esempio l'inglese Callaghan, e che i fattori tribali vi svolgano un ruolo più importante di quello russo-cubano, pur se gli invasori venivano dall'Angola «stabilizzata» da Cuba. Ma prima dello Zaire c'era stata appunto l'Angola e c'era stato il Corno d'Africa, e dopo lo Zaire si delinea il caso della Rhodesia e, più in là ancora, quello del Sud Africa; e lo Zaire, del resto, è tutt'altro che un caso chiuso, come non lo è quello dell'Africa orientale, per via dell'Eritrea. Dunque un disegno ad amplissimo raggio, capace, in prospettiva, di fare dell'Urss la potenza egemone in un'area vastissima. A questo punto Carter ammonisce severamente l'Urss a tornare al rispetto del «codice della distensione», che secondo la Casa Bianca significa che «la distensione dev'essere sinceramente reciproca e sia gli Stati Uniti che l'Urss devono agire con cautela in aree turbolente e in tempi turbolenti». E contemporaneamente ricorda che «l'offesa ai diritti umani fondamentali nel loro stesso Paese (...) ha guadagnato ai sovietici la condanna di tutti coloro che ovunque nel mondo amano la libertà». Cioè sostanzialmente rilancia la visione globale e «ideologica» della nuova politica estera americana. Una simile presa di posizione sarà valutata, è chiaro, dall'Urss con ogni cautela, tanto più che essa si accompagna a ripetuti accenni di Brzezinski a un rafforzamento, non tattico ma strategico, del dialogo con la Cina: ciò che ora accresce l'irritazione di Mosca, ma a più lungo termine la fa seriamente riflettere. Può darsi, dunque, che l'alternativa carteriana {«sfida o cooperazione» ) produca effetti positivi. Ma può anche darsi, ed appare tutto sommato più probabile, che i sovietici insistano nella strada che hanno scelto, una strada nello stesso tempo difensiva e offensiva. E in questo caso si va verso un confronto glo¬ bale. Naturalmente non è detto che esso debba essere assolutamente drammatico: le regole di fondo della coesistenza (l'equilibrio strategico, l'«impossibilità» di una guerra) restano intatte. Ma la distensione, com'è stata finora intesa, almeno dagli occidentali, ne uscirebbe completamente stravolta, dando luogo a una fase di tensione non molto dissimile dalla vecchia guerra fredda. Questo, anche tenendo conto dalla transizione in atto in Urss, mentre declina la «leadership» di Breznev, e delle crescenti difficoltà economiche interne, due circostanze che in un sistema chiuso e autoritario come quello sovietico normalmente stimolano irrigidimenti e sfoghi verso l'esterno. Quel che si vuol dire, e che molti a Washington cominciano ad avvertire, è che la politica di Carter, giusta o sbagliata che sia, cumulandosi con l'immutata e ancora immutabile natura dell'Urss, comporta un prezzo; invece era ed è ingenua l'idea di poter conciliare un po' tutto contemporaneamente. Mentre i sovietici riflettono sulla reale risposta da dare a Carter, anche Carter deve pensare a quale dei due aspetti della sua strategia dare la preminenza, se necessario: a quello pragmatico o a quello ideologico, a quello che punta a preservare il presente o a quello che mira a modificare il futuro. Quale sarà il traguardo della corsa americana? E' il momento più complesso e delicato del rapporto Est-Ovest dai tempi di Kennedy, e vi siamo tutti coinvolti, per tanti versi. Aldo Rizzo
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