Un inedito di Casalegno

Un inedito di Casalegno DEMOCRAZIA, VIOLENZA E ORDINE Un inedito di Casalegno Una raccolta degli scritti politici di Carlo Casalegno, con il titolo della sua rubrica per La Stampa, Il nostro Stato, sarà pubblicata tra pochi mesi, a cura di Alessandro Galante Garrone. Ognuno riconoscerà la preveggenza del nostro amico e collega nell'individuare e denunciare alcuni tra i più drammatici aspetti della crisi italiana. La raccolta conterrà, spero, anche uno scritto finora inedito, una lettera a me indirizzata, che ho ritrovato non molti giorni addietro e che qui voglio pubblicare. E' datata soltanto «domenica sera», e non ne ricordavo a memoria la data, che è però facilmente individuabile, per il riferimento alle manifestazioni studentesche di Roma «contro la condanna di Panzieri e la riforma di Malfatti». Le prime manifestazioni furono il sabato 5 marzo 1977, ed io le commentai per il giorno seguente (domenica) in un breve corsivo d'ultima pagina intitolato «Non si può essere neutrali», sostenendo la necessità di ristabilire fermamente la legge contro i praticanti della «guerriglia urbana» e i neo squadristi che, poco tempo prima, avevano aggredito anche l'onorevole Lama all'Università di Roma. Non può essere ovviamente questo il mio «editoriale» cui fa riferimento la lettera di Casalegno, bensì quello di domenica 13 marzo, intitolato «Riportare l'ordine fin che c'è tempo». Intanto, era trascorsa una settimana tremenda. Negli scontri attorno all'università di Bologna, VII marzo, era rimasto ucciso lo studente Lorusso (scrissi di nuovo un corsivo, intitolato «Ora basta con la violenza», dicendo tra l'altro: «Basta con l'incivile lotta tra le fazioni. Basta anche predicare l'ideologìa dello "scontro" e della "lotta dura" fino alla guerriglia urbana; basta con gli assalti armati e le farneticazioni rivoluzionarie, che ogni giorno incessantemente si ripetono»). All'indomani, sabato 12 marzo, mentre la «guerriglia» si estendeva da Bologna a Roma, con un corteo di cinquantamila studenti nella capitale, a Torino veniva assassinato, dalle Brigate rosse, il Brigadiere Ciotta. Nell'editoriale di domenica 13 si analizzavano i problemi politici, si denunciava soprattutto il fatale circolo vizioso che si era creato tra i gruppi estremisti della nuova sinistra (Lotta Continua e simili), i movimenti eversivi «autonomi» con le loro violenze, e i gruppi terroristici propriamente detti (Br, Nap, e i vari terrorismi fascisti) i cui omicidi, attentati, stragi facevano a loro volta da detonatori di larghe agitazioni di piazza. Concludevo scrivendo: «Non si debbono più tollerare carceri in subbuglio, giovani mascherati e armati, assalti ai negozi, occupazione di edifici pubblici passivamente subite. Esitare a ristabilire l'ordine oggi vuol dire preparare ben più gravi pericoli per la democrazia domani». Questo editoriale, dunque, apparve il 13 marzo del 1977 e questa è anche la data della lettera di Carlo Casalegno. Gli assassini delle Br lo colpirono il 16 novembre, la morte avvenne il 29. La lettera che riproduco non richiede illustrazioni o commenti, solo una breve spiegazione. Sarà accaduto tre o quattro volte, in quasi cinque anni d'intensa collaborazione, che Casalegno mi abbia scritto, per sottolineare con particolare forza qualche tema urgente. Gli stessi concetti qui esposti possono ritrovarsi nei suoi editoriali o nelle sue rubriche dell'epoca, ma mi sembra che lo straordinario vigore di questo scritto richieda la pubblicazione; anche perché la realtà italiana non è tanto cambiata (se cambiamento v'è stato, è forse in peggio), da togliere a questa analisi tutta la sua forza ed anche la sua attualità. Ricordo al lettore che Casalegno, al fine di salvare «il nostro Stato», riteneva più che sufficiente la legge democratica; se difese le disposizioni conosciute come «legge Reale» fu appunto perché al suo grande scrupolo e sensibilità di «servo dello Stato democratico» esse non apparivano affatto come «leggi speciali» antidemocratiche. Pubblico la lettera quasi integralmente, togliendo cioè soltanto alcuni sfoghi polemici particolareggiati, di cui non ritrovo traccia nei suoi scritti dell'epoca, editoriali o rubriche; mi sembra perciò che sarebbe ingiusto riferirli ora, nello stampare uno scritto che era evidentemente destinato a lettura e discussione privata, e non pubblica, (a. 1.) domenica sera Caro Arrigo, la cronaca degli ultimi giorni mi sembra indurre alle previsioni meno ottimistiche sul prossimo futuro. Salvo errore di giudizio, e salva l'ipotesi di una svolta, di un sussulto d'energia politica, l'ordine pubblico è il problema n. 1 del Paese. Non ho mai creduto che i mo- vimenti giovanili dell'autunno-inverno (proteste, occupazioni, scontri, autoriduzioni) fossero genuinamente spontanei, anche se fondati su un genuino e spontaneo malessere: il coordinamento geografico, la tattica guerrigliera, il sincronismo di movimento dei gruppi, da un lato, e dall'altro l'azione parallela di ristrette ma efficienti organizzazioni pararivoluzionarie, il fluire di militanti dagli extraparlamentari (in ebollizione frazionistica) ai gruppi «spontanei», inducevano a sospettare l'esistenza di quadri dirigenti, di ispiratori e di coordinatori. Gli ultimi fatti confermano il sospetto (anche se non consigliano esercitazioni fantapolitiche su «centrali dell'eversione»). Gli incidenti di Roma, Bologna, Milano dimostrano alcune cose. Anzitutto, una capacità di coordinamento: nell'azione guerrigliera come nell'organizzazione di grandi manifestazioni, che impegnano almeno una decina di gruppi ed esigono una «intendenza» di ragguardevoli dimensioni. In secondo luogo, una vasta rete di solidarietà e complicità: Ao, Le, Ms, Pdup possono rinnegare a parole e talvolta nei fatti gli Autonomi; in realtà sanno che gli squadristi autonomi trovano nei loro cortei un alibi, una copertura, una difesa, un mezzo per disperdere o paralizzare la polizia, e sanno che si commetteranno violenze. Di fatto, gli Autonomi sono la punta armata, prima accettata e poi difesa, dell'estrema sinistra. In terzo luogo, un tragico salto di qualità nella violenza. Le cronache degli incidenti di Roma (e anche di Bologna) indicano che dai bastoni si è passati alle rivoltelle, dalle molotov artigianali a quelle con innesco chimico, dalle vetrine infrante al programma di distruzione, e dagli scontri di piazza alla guerriglia metodica. Il racconto del tollerante xxxxxx non lascia dubbi: alcune centinaia di «tupamaros» si sono mossi con grande abilità, in gruppi accortamente diretti, provocando il massimo danno con il minimo costo, protetti dalla gran massa dei cortei, in qualche modo aiutati dalle radio private. Ci vuole qualche esperto e qualche colonnello, se non generale, per condurre operazioni cosi brillanti. Mi sembra che ci sia un salto anche nelle ambizioni e nella sicurezza dei nuovi guerriglieri. Dovunque, in tutte le città, si sono allargati gli obbiettivi. Non si attaccano soltanto i poliziotti in servizio, ma le sedi della polizia, in qualche caso costringendo agenti e carabinieri a chiudersi nei loro fortilizi. Si attaccano uffici e negozi, ristoranti e agenzie automobilistiche, sedi diplomatiche e uffici di partito, con partico¬ lare accanimento contro la de; e anche istituti cattolici, confessionali, del tutto estranei alla lotta politica. Le scuole di ogni grado, più che obbiettivi, sono basi di partenza per i raids offensivi. Superfluo ricordare i pericoli insiti in questa escalation: passando dai disordini alla guerriglia e dalla guerriglia alla guerra, si rischiano il massacro e il blocco d'ordine. La repressione di questa serie di reati impressionanti è paurosamente inadeguata. L'elenco dei delitti comprende mezzo codice penale: adunata sediziosa, organizzazione di bande armate, saccheggio, furto, miliardi di danni ai privati (auto e negozi distrutti) e alla collettività (vedere le strade di Roma), omicidio e tentato omicidio, ferimenti, apologia di reato e incitamento a delinquere: i soli striscioni dei cortei « ufficiali » e « autorizzati » (tipo: « Cossiga boia, è ora che tu muoia ») consentirebbero pesanti condanne. Ebbene: i fermi brevissimi, saranno in tutta Italia forse duecento; gli arresti, venti o trenta; le condanne, rare, indulgenti, tardive, e soprattutto inflitte alla cieca. Mancano al loro compito, mi sembra, la magistratura e il ministero dell'Interno, come direttive di governo e come opera di polizia. I magistrati condannano per «complicità morale», sequestrano Scelti i finalisti Acqui Storia La giuria del premio Acqui Storia, dopo lungo e accurato esame dei ventiquattro volumi partecipanti al premio, ha soffermato la sua attenzione sui seguenti titoli: Piemonte di Valerio Castronovo (Einaudi), Sturzo di Gabriele De Rosa (Utet), Storia della de di Giorgio Galli (Laterza), Socialismo europeo e bolscevismo di Albert S. Lindemann (Il Mulino), Socialismo internazionale e guerra etiopica di Giuliano Procacci (Editori Riuniti). Un successivo approfondimento dell'analisi ha ristretto la scelta ai tre volumi di Castronovo, De Rosa e Lindemann, riconoscendone l'alto valore scientifico e l'importanza dell'argomento, suscettibili di alimentare un ampio dibattito. La giuria è composta da Norberto Bobbio presidente, Piero Bianucci, Giorgio Bocca, Gian Mario Bravo, Angelo Del Boca, Davide Lajolo, Mario Lombardo, Lorenzo Mondo, Geo Pistarino, Massimo Salvadori, Marcello Venturi. Porci con le ali e Salò; ma non capiscono che l'unico mezzo per impedire la fabbricazione e l'uso delle molotov è d'infliggere la pena prescritta dal codice (o dalla legge Reale) a chi le fabbrica e le usa; che l'unico sistema per salvare dai vandali università e uffici e sedi di partito è di condannare, secondo la legge, i nuovi vandali. Il ministero dell'Interno ha commesso, mi sembra, tre errori. Primo, un lunghissimo periodo di tolleranza, soprattutto verso le agitazioni studentesche, ciò che ha provocato enormi danni e dato agli Autonomi ed ai loro troppi alleati l'illusione dell'impunità. Secondo, un eccesso di cautela negli arresti: la prudenza è lodevole quando evita le tragedie, non quando incoraggia il crimine. Terzo, un eccessivo ritardo nel vietare cortei e dimostrazioni in sé legittimi, ma causa sicura di disordini e tali comunque da gettare nella paura e nel caos il centro di grandi città. Come si poteva accettare che 50 mila studenti bloccassero Roma per protestare contro la condanna di Panzieri e la riforma di Malfatti, nel clima dell'ultima settimana? Il rischio di esasperare la massa studentesca «attiva» è grande; ma direi che è più grande il pericolo di abbandonare le città ai teppisti e le università ai vandali, rispettando quel diritto d'asilo che giustamente è stato abolito per chiese e conventi. Nel tuo editoriale tu hai indicato molto bene i problemi politici, e consento interamente con il tuo scritto; ma mi consenti uno sfogo? Tra i complici della distruzione dell'ordine pubblico, io assegnerei un posto non secondario ai sociologi (salvo rarissime eccezioni), con le loro cretinerie permissive sulla «creatività» del nuovo '68 e sul buon fondamento della grande rivolta generazionale; alle punte «avanzate» del sindacalismo; ai soliti che dicono «no al teppismo e alla violenza poliziesca», come se fossero fenomeni simili e se non fosse un miracolo la morte d'un solo dimostrante, e che chiedono di «rimuovere le cause della tensione», dimenticando che essa si alimenta anzitutto con l'illusione o la speranza dell'impunità. Ma io non riuscirò mai a capire la logica della demagogia, vorrei anzi usare parole roventi. Gli scioperi non simbolici (5 minuti di fermata sul posto di lavoro), ma di ore e ore e con cortei, in difesa «dell'ordine democratico», mi sembrano ancora più stupidi, pericolosi, diseducativi delle giornate di sciopero «per le riforme». Al termine di una giornata di letture, sentivo il bisogno di questo sfogo. Un pensiero amichevole da Carlo