Cerchiamo l'albero dei nonni di Stefano Reggiani

Cerchiamo l'albero dei nonni IL FILM DI OLMI E LA CULTURA CONTADINA Cerchiamo l'albero dei nonni I pericoli della nostalgia, la realtà dell'emarginazione - Gran parte degli operai viene dalla campagna La pazienza è una virtù? - "Il modello industriale è irreversibile", "il ritorno alla terra è un'utopia" Ci sono immagini del nostro passato contadino che il film di Olmi L'albero degli zoccoli, premiato a Cannes, porterà presto, fra trepidazione e disagio, in mezzo al pubblico italiano. Le veglie nelle stalle, gli amori ombrosi, le parole del prete, i parti senza levatrice, il correre delle stagioni, il suono delle campane, la pazienza, la fatica. E quel camminare simbolico sugli zoccoli, che ci vuole il legno forte d'un gelso per costruirli. Gli zoccoli di Olmi sono bergamaschi. Ma c'erano anche nel Veneto, fino al dopoguerra; erano le «sgiàvare de legno» che Dino Coltro ha messo in un libro f«Na olta, me ricordo con le sgiàvare de legno / me sentea foresto ne la scola»). E c'erano in Piemonte, come ricorda Nuto Revelli nel suo Mondo dei vinti: «In quei tempi tutti andavano a messa scalzi o con gli zoccoli nei piedi». Avevamo avvertito da Cannes che la grande liturgia contadina di Olmi, con le sue suggestioni e i suoi abbandoni, il suo senso della provvidenza e della natura, era pronta per aprire un dibattito in Italia pieno di tentazioni e di pericoli. Che senso ha oggi celebrare il passato contadino? Quanto ci pesa addosso? Che valori ha conservato? Cerchiamo di avviare il discorso nel modo più piano. insieme con Nuto Revelli, che sta preparando per Einaudi una nuova ricerca sulla donna nel mondo contadino; con Dino Coltro, che ha già pubblicato presso l'editore Bertoni tre libri sulla cultura contadina veneta; con Eugenio Corsini, insegnante di letteratura cristiana antica all'Università di Torino e promotore a San Benedetto Belbo di una cooperativa agricola che raccoglie intellettuali e contadini; con lo storico Valerio Castronovo, che ha indagato minuziosamente in Piemonte la nascita del primo sviluppo industriale e la trasformazione delle campagne. Sia Revelli, sia Coltro conoscono Olmi; sono sicuri che non ha commesso apologia del passato, ma conoscono anche le iìisidie della poesia e della nostalgia, se si applicano alle buone virtù antiche. QUANTO HA PESATO E PESA LA CULTURA CONTADINA SULLA SOCIETÀ' ITALIANA? — Risponde Castronovo: «L'eredità c'è ancora e si sente. Una gran parte della classe operaia e venuta e viene dalla campagna. E' fuggita, ha rotto col suo mondo, ma non con la sua cultura. Ci vogliono generazioni per cancellare le proprie origini; così si spiegano i traumi dell'immigrato contadino nelle città industriali, non ci sono più i ritmi naturali da seguire, è la nuova condizione a dettare le sue regole». Così, per esempio, il contadino del Nord farà fatica a capire la fabbrica, a diventare attivo nella politica e nel sindacato; così il contadino del Sud non troverà la dimensione collettiva del paese e faticherà a ricucire i legami di parentela, il grande gruppo familiare. E tutti troveranno nella fabbrica una costrizione di tempi stretti e angosciosi paragonata alla lenta forza delle stagioni. C'è stato un salto di sviluppo, dalla campagna alla fabbrica, troppo rapido, dice Castronovo, non graduale, come in Francia e in Inghilterra. E il contadino sradicato non s'è trovato davanti la consapevolezza della cultura dominante. Ecco il punto: l'alternativa alla cultura contadina è ancora oggi la cultura piccolo-borghese, da una parte curiale, retorica, conservatrice; dall'altra falsamente radicale, populista. Riflette Castronovo: «Come nel film Novecento di Bertolucci». E aggiunge: «Ma perché, dopo Petri, non ci vengono nuovi film sulla classe operaia, sulla società urbana, sulle fabbriche? Appunto per difetto di cultura consapevole». Osserva Coltro: «Magari il cinquanta per cento del proletariato è contadino, ma solo come sentimenti e costume individuale, non più come stato sociale, come rapporti collettivi. E ormai per arrivare alla cultura contadina c'è da superare la barriera del folclore, quella di un certo schematismo marxista, quella degli antropologi pieni di sussiego». L'altro giorno un vecchio mungitore ha portato Coltro nella stalla automatizzata. Gli ha detto: «Adesso mungono con le macchine, ma noi avevamo la mano esperta, un tocco diverso per ogni mucca, sapevamo come farle rendere, era una capacità tecnica». Anche Revelli, come si sa, gira le campagne del Cuneese, parla, prende appunti. Quando gli chiedono cos'è la cultura contadina, risponde: «In guerra non mi sarei salvato senza i soldati contadini. Sapevano come far camminare un mulo a quaranta gradi sottozero e come trovare le patate sotto la neve. La cultura contadina e conoscenza della natura». E Coltro: «Anche il part-time, il mezzo lavoro in fabbrica, è un modo per stare ancorati alle certezze che dà solo la terra». ALLORA, QUALI SONO LE VIRTÙ' CONTADINE? — Risponde Corsini: «La solidarietà, il senso comunitario. Il preteso egoismo contadino è scatenato dalle forze urbane, che hanno sempre diviso la gente della campagna per timore d'una sua alleanza Stalin distrusse i contadini, Mao capi il valore della loro pazienza». Questa pazienza è la virtù più fonda, e la più sospetta. Dice Corsini: «Dipende dalle circostanze, in Cina è stata una virtù storica. Comunque la pazienza è indispensabile per sopravvivere, con la pazienza il contadino non è stato vinto dalla natura». E poi: «Non abbiamo diritto di intervenire con la presunzione di chi sa, i contadini debbono farsi da soli le loro leggi. Dicono che la loro religiosità è superstiziosa, ma non meno dell'irreligiosità urbana». Avverte Coltro: «La pazienza è anche una condanna, io mi ricordo bene, vuol dire vivere tra speranza e paura. Oggi noi cerchiamo altri valori contadini che si sono persi, come la creatività spontanea del linguaggio, come il modo di pensare se- condo una logica affettiva legata all'esperienza. Giro le campagne alla ricerca dei contafole, i raccontafavole, e capisco che i contadini, pur subalterni, avevano un loro regno indipendente nella parola. Oggi sono stati espropriati delle parole». Virtù, valori. Revelli ci pensa e dice: «Potrei fare un elenco e mettere in prima fila come virtù il rifiuto della guerra. I contadini hanno sempre subito la guerra, l'hanno fatta per gli altri. E poi, il rispetto della natura, la serietà nel lavoro, la capacità di mantenere gli impegni. I contadini sono lenti nei loro entusiasmi, non sono fanatici, non sono superficiali». Ma attenzione — sono finalmente d'accordo tutti gli interlocutori — non cediamo alla nostalgia e alla lode del tempo andato. Sarebbe politicamente pericoloso, un modo per mascherare la cattiva coscienza. Dice Corsini: «Anche un modo per distruggere quello che si loda a parole». COME RECUPERARE IL MONDO CONTADINO CONTRO LA NOSTALGIA. — Anzitutto con interventi polìtici, dice RevelH, per impedire che scompaia la campagna povera; per mantenere, con una cultura, una produzione indispensabile («ormai importiamo tutto»;. Non con il mitico ritorno alla terra che si sogna puntualmente nei periodi di crisi, dice Castronovo, «questa è solo un'utopia che può essere consolatoria, ma di cui bisogna essere consapevoli». Allora, il problema è di far coesistere due mondi, quello industriale e urbano con quello agricolo. Per Corsini si tratta di una coesistenza alla pari: «Il mondo contadino non è un gradino basso della nostra evoluzione, è solo una cultura diversa che bisogna salvare rispettandola, come accade in Francia e in Svezia. Bisogna trovare una mediazione, non una usurpazione». Per Castronovo si tratta di una coesistenza necessaria, ma impari: «E' inutile, il mondo va avanti con le città, lo sviluppo esiste, non si può tornare ai ghetti contadini, a un costume quasi fermo, alla sottomissione. Adesso occorre trattenere con buone condizioni economiche chi è rimasto sulla terra, ma apprezzare e giustificare chi è fuggito». Sospira Revelli: «E' giusto, da certe conquiste, da certi modelli non si torna indietro, ma è proprio questo il momento per capire il mondo contadino, per dargli solidarietà intellettuale, per sollecitare le speranze nuove che nascono dal basso». Dice Coltro: «E' il momento di capire il passato». Stefano Reggiani Contadini al lavoro nella campagna di Siena (La Stampa - Piero De Marchis)