I conti in rosso e gli investimenti di Francesco Forte

I conti in rosso e gli investimenti I conti in rosso e gli investimenti (Segue dalla 1* pagina) sorse reali, con ciò accrescendo lo stesso potenziale di inflazione, sul lato dei costi unitari. Qui sta una novità di importanza centrale, nell'analisi del governatore. Il costo del lavoro — egli dice e ripete — dipende sia dal costo unitario del lavoratore per l'impresa e sia dal grado di utilizzo della capacità produttiva e dalla produttività: cioè, quando la domanda è ristretta e si sfruttano poco gli impianti e male la forza di lavoro, si ha un aggravio dei costi del lavoro per unità di prodotto. Quindi Baffi accoglie la tesi — che ho più volte qui sostenuta — che fra le cause profonde di inflazione vi è anche la deflazione, il ristagno o riduzione della domanda che impedisce alle imprese di valorizzare le loro capacità produttive e di fare scendere i costi unitari. Ciò a prescindere dal concetto, che pure Baffi sottolinea, che questo basso ritmo economico impedisce la soluzione del problema della disoccupazione, che si misura oggi in 1,7 milioni di senza lavoro. Altra novità, nei ragionamenti di Baffi, che si collega (ma non solo) alle osservazioni appena viste: una ripresa degli investimenti, dice Baffi, tenderà a comportare nel breve periodo pressioni sui nostri conti con l'estero. Ma se «l'eventuale passaggio in rosso di queste voci avverrà in un contesto di ricostituzione degli equilibri reali e monetari interni, si potrà contare su flussi finanziari dall'estero stabiliti e consistenti ed evitare che il vincolo esterno, del disavanzo della bilancia dei pagamenti correnti, comprometta la durevolezza della ripresa». Si ricorderà che Baffi, lo scorso anno, aveva delineato — almeno come ipotesi — una «strada stretta» per l'economia italiana, caratterizzata da una crescita non superiore al 3 per cento, in relazione alla necessità di tener conto del vincolo della bilancia dei pagamenti. Io avevo polemizzato con questa impostazione, che mi pareva troppo rigida. Ora Baffi rettifica o forse solamente chiarisce il suo pensiero (come egli mi ebbe a precisare per lettera, certe sue frasi «drastiche» avevano soprattutto la funzione di sfida, di stimolo). E ci dice che non dobbiamo in ogni momento fare il conio del pareggio della bilancia corrente dei pagamenti, ma guardare anche alle ragioni del disavanzo e a ciò che vi si accompagna nelle imprese. Se i conti con l'estero vanno temporaneamente in rosso perché le imprese investono in valide iniziative produttive, allora noi possiamo anche non far agire subito il freno all'espansione. Ciò perché se le imprese, che fanno quegli investimenti, sono sane e profittevoli, si troveranno flussi di capitale disposti a finanziarle, fra quelli che oggi sussistono in sovrabbondanza, sul mercato finanziario internazionale, in relazione all'impiego dei petrodollari. Si osservino, però, le condizioni di questa diversa concezione, più elastica, del vincolo della bilancia dei pagamenti corrente: primo, bisogna che il «rosso» temporaneo dei conti con l'estero sia dovuto a seri investimenti produttivi; secondo, bisogna che le imprese risultino una sede profittevole di investimento. Questo, a mio parere, comporta anche che, nel nostro sistema, si adottino corrette regole di mercato. Meno di Baffi, io posso accettare, anche come misura tampone, l'attuale regime di vincolo all'espansione del credito alla produzione, che distorce il mercato del credito. Ultima novità, che voglio chiosare, nella relazione di Baffi: egli non ha più la fede, che si era in precedenza manifestata (non solo da parte sua, per il vero) nei calcoli fatti con il modello econometrico della Banca d'Italia, per cui si fissavano certi rigidi traguardi, relativi al volume del credito interno, alla quantità di nuova moneta ecc. e si pensava di desumere da questi, automaticamente, i risultati giusti, per la stabilizzazione dell'economia. Questo «manicheismo» econometrico ora viene abiurato: la politica economica, dice Baffi con grande modestia, se vi sono inattese intensità di risposta alle azioni adottate, deve saper rivedere i suoi obbiettivi intermedi, che vi si riferiscono. Ma, in cauda venenum. Tutte queste disponibilità alla «flessibilità» non esimono dall'osservare che comunque l'attuale disavanzo pubblico è fuori da regole di buon senso; e che esso preoccupa soprattutto perché non si è rimediato alle cause automatiche che portano a farlo risalire, dopo ogni «stangata» o stangatina. Baffi ha certo ragione su ciò. Parimenti, ci sono automatismi nel campo del costo del lavoro che creano problemi. Qui le mie tesi differiscono un po' da quelle di Baffi, ma mi sia consentito sostare a questo punto, per riprender il discorso in seguito: fermo restando, comunque, che ci deve preoccupare la lievitazione del costo del lavoro al di là dell'aumento dei prezzi e dell'aumento di produttività, che vi è stata nel 1977-1978 e che ancora si profila. Francesco Forte