Le analogie con la vicenda dei giudice Sossi di Guido Guidi

Le analogie con la vicenda dei giudice Sossi Le analogie con la vicenda dei giudice Sossi Soltanto la Corte d'Assise può liberare i "prigionieri,, Il Presidente della Repubblica può intervenire con la "grazia" in alcuni casi - Lo strumento giuridico che i giudici possono utilizzare è noto come " legge Valpreda " ROMA — I veri destinatari del ricatto delle Brigate rosse, più ancora che il governo e la democrazia cristiana, sono i giudici. Infatti l'angoscioso problema della liberazione di Aldo Moro può essere risolto soltanto ed esclusivamente dai magistrati, togati e popolari, delle Corti d'Assise. In teoria, nella legge esiste Io strumento (libertà provvisoria) per arrivare ad una conclusione di questa storia drammatica, ma si tratta di uno strumento che soltanto loro possono usare. A nessun altro, infatti, è consentito prendere qualsiasi decisione: il presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia e persino il Parlamento non hanno alcun potere sotto il profilo tecnico-giuridico. Anche al Capo dello Stato è vietato intervenire: non avrebbe alcuna validità e quindi alcuna conseguenza pratica, infatti, un suo eventuale provvedimento di grazia per liberare quei detenuti (a meno che non siano già condannati con una sentenza definitiva) dei quali si chiede lo scambio con Aldo Moro. Chi possano essere questi giudici togati e popolari è difficile dirlo, per il momento, con esattezza perché vaghe e confuse sono sinora le richieste ed il ricatto delle Brigate rosse. Nell'ultimo comunicato si parla genericamente della liberazione di «prigionieri comunisti» senza specificare la identità. Poiché, secondo quanto ha detto recentemente il ministro dell'Interno in un dibattito al Senato, 148 sono i detenuti che appartengono alle Brigate rosse, 126 quelli che facevano parte dei Nap e 14 quelli di «Prima Linea» è quasi impossibile avere un quadro della situazione molto preciso. Si dovrebbe supporre che potrebbero essere i giudici di Torino (se la richiesta, come è probabile, riguardasse Renato Curcio, Alberto Franceschini, Fabrizio Pelli e gli altri dei quali si sta celebrando il processo in questi giorni), quelli di Milano dove è stato giudicato Ognibene, quelli di Bologna e di Padova: ma se il ricatto venisse esteso anche ai «nappisti» e agli appartenenti a «Prima Linea», nella decisione sarebbero coinvolti anche i magistrati di Roma, Napoli e Firenze. Lo strumento giuridico che i giudici dovrebbero utilizzare è quello che passa come legge Valpreda. Nel dicembre 1972 per consentire a Valpreda di tornare in libertà provvisoria (aveva già trascorso due anni in carcere in attesa di un processo la cui conclusione ancora oggi è molto lontana perché la sentenza è prevista a Catanzaro non prima della fine del 1979), il Parlamento stabilì che, in alcuni casi, poteva essere concessa la libertà anche a chi era imputato per un reato che prevedeva il mandato di cattura obbligatorio. E' vero che tre asrinvpoaahcshpePPr«nl e i e e e è i a a e anni dopo (maggio 1975) questa legge è stata modificata e ridotta con la conseguenza di negare questo beneficio a chi viene incriminato per reati particolarmente gravi come omicidio, rapina, insurrezione armata contro lo Stato: ma è anche vero che il Parlamento ha stabilito di negare la concessione della libertà provvisoria soltanto a coloro che hanno commesso il reato dopo l'approvazione della legge e cioè dopo il 22 maggio 1975. Poiché Curcio, Franceschini, Pelli e tutti gli altri brigatisti rossi, i nappisti, taluni di «Prima Linea» sono incriminati per episodi avvenuti prima dell'entrata in vigore della legge più severa, non vi è dubbio che, in teoria almeno, i giudici possono applicare la legge precedente (quella Valpreda, tanto per intenderci) che è più generosa e non la legge successiva che, invece, è più severa. Concedere la libertà provvisoria anche quando la legge prevede il mandato di cattura in modo tassativo non è un obbligo, ma una facoltà concessa eccezionalmente al magistrato. Ma in quale modo possono reagire i giudici (soprattutto quelli popolari s cioè normali cittadini chiamati a collaborare occasionalmente con la giustizia) di fronte al dilemma di prendere una decisione dalla quale può dipendere la vita di un uomo? Il precedente del giudice Sossi è sintomatico: la Corte d'Assise d'Appello di Genova (maggio 1974) preferì sacrificare il prestigio dello Stato piuttosto che il magistrato. La vicenda, allora, ebbe unai conclusione diversa perché la libertà non fu concessa agli otto detenuti del gruppo «22 Ottobre» (condannati perché responsabili di omicidio, rapina e sequestro di persona) come pretendevano le Brigate rosse e Sossi fu ugualmente rilasciato. Fu Francesco Coco, allora procuratore generale della Corte d'Appello di Genova, ad opporsi perché, materialmente, si aprissero le porte del carcere per gli otto detenuti e la Cassazione gli dette ragione annullando la decisione presa dai giudici genovesi: due anni dopo, venne ucciso (e con lui gli uomini della scorta) da un commando di brigatisti rossi. In quell'occasione, i giudici genovesi decisero di cedere al ricatto partendo dal presupposto (e lo dissero chiaramente nella loro ordinanza che poi venne annullata dalla Cassazione) che se avessero rifiutato la proposta di arrivare ad uno scambio avrebbero praticamente condannato a morte Sossi. «Valutata la eccezionale gravità della situazione — spiegarono i magistrati dopo una lunga e drammatica discussione in camera di consiglio —; considerato il grave ed imminente pericolo che incombe sulla vita di Mario Sossì (...): avverti ta la inderogabile ed indila¬ zroprlctpqtc—tcsldlGddsn zionabile necessità di impedire l'omicidio del dott. Sossì, omicidio minacciato per le prossime ore e più ancora la responsabilità morale di facilitarne, se non addirittura incoraggiarne la esecuzione attraverso il mancato uso dei poteri attribuiti dalla legge a questa Corte; ritenuto che fra tali poteri rientra quello di concedere — anche d'ufficio — la libertà provvisoria ai detenuti conformente a quanto chiesto dai responsabili del sequestro del dott. Sossi quale condizione per non procedere alla sua uccisione (....) la Corte d'assise d'Appello di Genova concede il beneficio della libertà provvisoria ai detenuti (....) e ne ordina la scarcerazione». La ordinanza non fu poi eseguita contro il parere espresso dai giudici genovesi. Il meccanismo che il ricatto delle Brigate rosse vuole mettere in movimento anche per Aldo Moro è lo stesso anche se molto più macchinoso e complesso. Curcio, per esempio, non potrebbe mai tornare in libertà se i magistrati torinesi dovessero cedere alle richieste: è stato già condannato in modo definitivo (circa 20 anni) assieme a Franceschini e a Fabrizio Pelli per alcune rapine compiute in Emilia. La sentenza è stata confermata in questi giorni dalla Cassazione per cui l'eventuale intervento della Corte d'Assise di Torino non potrebbe avere alcuna conseguenza pratica: seppure ottenesse ipoteticamente la libertà provvisoria il «capo storico» delle Erigate rosse e gli altri due suoi complici rimarrebbero ugualmente in carcere. Sarebbe necessario un provvedimento di grazia del Capo dello Stato, il quale ha un potere autonomo in questo settore, ma è sempre vincolato all'opinione del ministro della Giustizia e quindi al governo. Vi è di più: se il ricatto coinvolgesse non soltanto i detenuti di Torino, ma anche quelli di Milano, Bologna, Napoli, Firenze e Roma il meccanismo messo in moto ieri dalle Brigate rosse si potrebbe fermare soltanto dopo che tutti i magistrati hanno preso la loro decisione. Cioè: fra sei mesi. Guido Guidi