Gli atenei italiani sempre più vecchi

Gli atenei italiani sempre più vecchi DELUSIONI DEI RIFORMATORI Gli atenei italiani sempre più vecchi Benedetto Croce raccontò, in unsi bella pagina autobiografica del dopoguerra, la sua «nomina a sorpresa» al ministero della Pubblica Istruzione nell' ultimo governo Giolitti, a metà del 1920. Non conosceva Giolitti; non aveva ambizioni politiche; detestava Montecitorio (che ricainbicrà la sua antipatia, nell'intero anno di governo). Era stato chiamato d'improvviso da Olindo Malagodi, il direttore della Tribuna intimo del settantottenne presidente del Consiglio incaricato, senza neanche specificare il motivo della convocazione. Era partito in tale fretta da Napoli che aveva portato solo un abito da pomeriggio. Tutto fu così precipitoso che con quell'abito dovette recarsi dal re per il giuramento, successivo di poche ore all'offerta formale di Giolitti: chiedendo al presidente un consiglio imbarazzato sull'etichetta, ne ebbe una risposta rassicurante, «il sovrano non badava a codesti formalismi». L'episodio mi è tornato in mente leggendo in questi giorni un quasi-inedito sulle «esperienze di un ministro» che la famiglia di Guido De Ruggiero, un nome che fu molto caro alla nostra adolescenza, uno dei grandi intellettuali dell'Italia della ragione che oggi si tende a dimenticare e i cui libri non sono ristampati come dovrebbero, mi ha trasmesso per un «ricupero» integrale sulle pagine della Nuova Antologia. De Ruggiero fu ministro della Pubblica Istruzione per meno di sei mesi, nel primo governo Bonomi, all'indomani della liberazione di Roma, da metà giugno a metà dicembre del 1944. «Da un giorno all'altro — si legge in questo documento suggestivo ed emblematico — mi trovai investito della nuova carica e "spedito" (è il termine esatto) a Salerno dove era la sede provvisoria del governo». ★ ★ Sono pagine autobiografiche che illuminano una delle fasi più drammatiche della storia d'Italia. De Ruggiero succedeva a un altro grande intellettuale che come lui militava nel partito d'azione ma con un "animus"' diverso, più polemico, più puntuto, più insofferente, Adolfo Omodeo, ministro per meno di due mesi nell'ultimo malinconico governo Badoglio. Omodeo, cui non mancava una punta di asprezza giacobina, aveva tentato la «maniera forte». Aveva ripristinato un rigoroso esame di Stato nelle scuole medie, in un momento in cui nulla funzionava, in cui tutto era sbriciolato. Le mura di Napoli erano piene di scritte ironiche o polemiche contro il fedele collaboratore di Croce nella «Critica». A De Ruggiero si chiedeva un'opera di pacificazione, di mediazione: nel rispetto della linea appena abbozzata dal predecessore, ma con le necessarie correzioni di rotta e di temperamento. Con -quali mezzi? Il quadro di De Ruggiero è rivelatore; nemico di ogni retorica, l'autore della «Storia del liberalismo europeo» ricostruisce quei mesi con mano discreta, perfino ironica. «Spedito» a Salerno, come il suo maestro Croce, in un'Italia tanto diversa, era stato spedito a Roma ventiquattro anni prima, non trova nulla: il ministero è una larva, i funzionari non ci sono, la commissione alleata di controllo decide tutto, in Sicilia ha perfino creato gli «am-professori». con speciali e sommari e, diciamolo pure, arbitrari concorsi universitari. Mescolato con diversi altri nel vasto palazzo della provincia, il ministero che era stato di De Sanctis, di Croce e di Gentile (un uomo che pure aveva pesato nella formazione filosofica di De Ruggiero) si identifica con un fantasma, circondato solo dall'odio o dalla prevenzione di una popolazione, quella del Sud, su cui si è estesa un'incerta e contrastata giurisdizione. La vera e propria attività del neo-ministro comincia solo a metà luglio quando il governo si «accasa» a Roma, liberata da un mese e mezzo. «A Roma — annota De Ruggiero — c'era il ministero, ma in quali condizioni ridotto! Buona parte del materiale d'archivio era stata asportata al Nord; il personale, latitante per nove mesi, tornava agli uffici in stato di grave depressione fisica e morale; le persistenti difficoltà di comunicazione rendevano estremamente arduo il censimento delle forze periferiche... Su tutti gravava una aria di sospetto». C'è solo un'automobile scassata al ministero: ha l'ordine di prelevare il ministro alle 8 del mattino — mi racconta la figlia - ma senza neanche aspettare un minuto, per gli altri giri che deve fare. I congiunti, dalla terrazza, debbono sbirciare l'auto che arriva al fine di evitare che l'autista riparta subito. De Ruggiero è abitualo ad una vita monacale: nel '41 il regime i ha tolto la cattedra, di storia della filosofia a Roma, per la riedizione latcrziana del classico sul liberalismo (un libro che forse non è più neanche nel catalogo Laterza). Proviene dall'amministrazione e dal giornalismo; conosce la povertà dell'una e dell'altro. E' stato, con Salvatorelli, funzionario di carriera al ministero dell'Istruzione, prima di tentare il concorso universitario; nell'intervallo ha militato nel giornalismo, come «elzevirista» prediletto da Missiroli, articolista secco, essenziale, gran semplificatore di problemi, anche, se necessario, corrispondente dall'estero come dimostrò con la bellissima, lucidissima inchiesta suH'«Impcro britannico dopo la guerra». * * Quando arriva al ministero ha 56 anni, di cui sedici trascorsi nell'insegnamento universitario (come Omodeo, ha accettato il consiglio di Croce, ha giurato so- lo per restare nell'università, per I evitare l'invasione dei mostri: senza mai una lode al regime, senza mai un cedimento, neanche di un'ora). Conosce bene la macchina della burocrazia, devastata ma non distrutta. Evita nomine politiche. Si avvale del concorso dei soli funzionari; ne rianima Io spirito di corpo. Annulla i congedi, i comandi, i vari «imboscamenti» (non ha dimenticato la lezione di Croce, quando egli, segretario poco più che trentenne alla Minerva, si era visto revocare il congedo proprio perché amico e discepolo del filosofo di palazzo Filomarino). E' cauto con l'epurazione; non è animato da nessuno spirito di vendetta, estraneo a qualunque rancore. Nulla funziona; ma tutti vogliono riformare. La scuola esce da quello che De Ruggiero condanna come il «riformismo tellurico» della gestione Bottai («una delle imprese più nefaste !e stata quella di sconvolgere la scuola mentre imperversava la guerra»). Il dibattito dilaga: scuola media unica con o senza latino? Sono i temi che accompagneranno, e travaglieranno, la Repubblica per un trentennio. Perfino gli alleati dicono la loro; il maggiore Washburn, capo della commissione alleata, avanza una tesi di transazione. L'ondata dei pedagogisti straripa; De Ruggiero, saggiamente, resiste. Si rende conto che il moto verso la scuola media unificata è inar-1 restabile; il rimpianto del vecchio ginnasio non lo paralizza. Con l'Italia divisa in due, il | Nord sotto l'occupazione tedesca, il Centro sotto il controllo alleato, il grande studioso capisce bene chc non è l'ora del riformismo integrale. E' l'ora, soltanto, della saggia e avveduta amministrazione. Un problema alla volta, e i più urgenti da affrontare, senza dilazioni o evasioni retoriche. Occorre abolire l'infausto libro di testo; non basta la sommaria epurazione, voluta dagli alleati. Occorre rielaborarc i programmi scolastici. Occorre occuparsi seriamente dei maestri elementari; sono 200.000, solo 120.000 insegnano nelle scuole di Stato, 50.000 sono disoccupati. Occorre affrontare una radiografia impietosa dell'istituto magistrale; così com'è non funziona, così come non funzionano le facoltà di magistero (dalle | quali il professore proviene). Occorre riattivare il consiglio supcriore delia pubblica istruzione, quello poi che egli presiederà, spesso in contrasto col suo successore democristiano, negli anni 46-48, prima della morte prematura. De Ruggiero, laico intransigente, non ha tabù né schemi fissi. Di fronte al tormentoso nodo dei rapporti fra scuola pubblica e privata, si muove nel solco crociano, contro ogni «monopolio statale dell'educazione», che «non corrisponde più — aggiunge con fermezza — ne al nostro ideale né alla nostra situazione di fatto, perché lo Stato uscirà cosi stremato dalla guerra, e il bisogno di cultura sarà così accresciuto, che il concorso di privati e di enti morali dovrà essere inteso come una necessità». Libertà d'insegnamento, ma contro ogni privilegio, confessionale o meno. Nella visione rigorosa di quel pluralismo chc cs'' na teorizzato e esaltato vent'anni prima nella «Storia del liberalismo», in antitesi ad ogni panteismo di Stato, ad ogni deviazione di Stato etico. Da buon professore universi- ] tario, De Ruggiero ministro conoscerà le maggiori delusioni proprio nel campo dell'università. Constata «il livello della cultura universitaria incredibilmente basso» (figuriamoci oggi!). Bolla la struttura universitaria come «invecchiata e insieme pletorica», schiacciata dalla doppia inflazione, di studenti e di. professori. Pensa ad una riforma che parta dall'interno degli atenei; anticipa i lineamenti costituzionali dell'autonomia. Si rivolge ai rettori per un censimento dei problemi più urgenti. Aspetta indicazioni organiche per la riforma. Gli giungono solo richieste di nuove cattedre e di nuove facoltà. «Tutti vogliono più ampie dotazioni — commen- ta — come se, invece di essere sull'orlo del disastro, fossimo entrati in un periodo di floridezza economica». Dimentichiamo per un momento le date; cos'è cambiato dal 1944 ad oggi? Giovanni Spadolini