Da nomadi del deserto a pescatori

Da nomadi del deserto a pescatori LA GUERRA CHE LA SOMALIA COMBATTE CON LA POVERTÀ Da nomadi del deserto a pescatori Mogadiscio cerca di legare un popolo di pastori al mare e alla terra - Accanto alle speranze, il dramma dello sradicamento (Dal nostro inviato speciale) Mogadiscio, marzo. Cinque milioni di persone su un territorio grande due volte l'Italia. Questa è la Somalia, Paese ricco di contrasti in cui ubertose campagne si alternano ad aridi deserti. I colonizzatori di un tempo non hanno lasciato ,n eredità nemmeno un chilometro di ferrovia: quella costruita dagli italiani, da Mogadiscio ad Afgoi, è stata smontata pezzo per pezzo dagli inglesi, che hanno portato via fino all'ultimo bullone. Non c'erano neppure strade: adesso, con l'aiuto dei cinesi, ne sono state costruite alcune che collegano le province meridionali a quelte settentrionali, ma i. nomadi che costituiscono il 75 per cento della popolazione continuano a spostarsi servendosi delle piste che si perdono nella boscaglia o attraversano le dune. Il Paese ha coste pescose ma non ha pescherecci, l'agricoltura potrebbe svilupparsi ma mancano trattori, mezzi meccanici, canali d'irrigazione, concimi. Da nove anni, dal giorno della rivoluzione, una classe dirigente giovane sì batte con coraggio per mutare tradizioni, mentalità e abitudini di una popolazione composta per la maggior parte di pastori errabondi: famiglie che camminano per giorni e giorni dietro i loro cammelli alla ricerca di acqua e di pascolo, portandosi appresso la capatina, una manciata di mais ed il pigro, quasi indolente fatalismo di una condanna che bisogna accettare con rassegnazione: quella della povertà. Il programma ideato dal governo è ambizioso: sostituire la libertà zingaresca dei nomadi con la vita sedentaria della comunità, legare questi eterni viandanti al mare ed alla terra. In questa visione è stato concepito l'esperimento di Brava, un villaggio 200 chilometri a sud di Mogadiscio, nato tre anni fa. durante la grande carestia, quando la siccità aveva provocato la morte di oltre ventimila persone, uccise dalla fame e dalla sete, e di circa otto milioni di capi di bestiame, stroncati dalla fatica di procurarsi un filo d'erba. Brava è diventata una scuola che trasforma i nomadi in pescatori. Ce ne sono 5000 nelle capanne costruite a ridosso delle bianche casette dell'antica cittadina marinara: quando sono arrivati non sapevano che cosa fosse il mare, quando hanno visto le onde infrangersi sulla spiaggia molti so¬ no scappati gridando che non volevano morire. « Per indurli a restare, a tornare indietro, abbiamo fatto leva sul loro orgoglio, mi dice Hagi Bascir, presidente della provincia di Brava, abbiamo fatto venire dei ragazzini già addestrati che si sono tuffati in mare, nuotando allegramente. I nomadi si so- e r e a e laio lo- a e he a la to ra si er asdi timin ndiediorno ava er rà oni, he ere he va e ria: ugo no fermati a guardare, qualcuno si è avvicinato lentamente all'acqua poi, rinfrancato, si è immerso ». E' sufficiente guardare il volto di Hagi Bascir, la soddisfazione che sprizza dai suoi occhi mentre rievoca quei giorni per comprendere che si tratta di una storia vera. Piano piano i pastori hanno sconfitto il terrore, hanno incominciato a maneggiare ami e reti. « Non è stato facile, prosegue Bascir: all'inizio, quando pescavano un tonno si affrettavano a tagliargli la testa e lo gettavano in mare dicendo che era impuro perché non era morto guardando verso la Mecca ». Adesso, sia pure senza slancio, lo pescano, lo fanno essiccare al sole, lo mangiano. La comunità produttiva di Brava possiede 37 motobarche (di fabbricazione giapponese e svedese), secondo il programma ogni barca deve pescare 1014 chilogrammi di pesce al mese. E' stato allestito un piccolo stabilimento per l'essiccazione dei tonni, che vengono esportati in Arabia Saudita (fino all'anno scorso veniva spedito quasi lutto in Russia e la pesca era controllata da tecnici sovietici). Il denaro ricavato viene utilizzato dalla comunità per costruire case per i nomadi. Mi fanno visitare il nuovo centro residenziale che sta sorgendo in riva al mare. Casette bianche, ad un piano, riunite in gruppo di dieci, col giardino e la cisterna per l'acqua. Ogni abitazione è composta da due camere, la cucina, il gabinetto. Poco lontano stanno costruendo la scuola elementare: c'è un gran fermento, donne e bambini sono impegnati nel « Iska uah ugabso », nel lavoro volontario cui partecipano tutti i cittadini. Lavorano senza compenso, cantando sotto il sole. E le loro sono canzoni di speranza in un futuro migliore. Sembrano felici, ma il dramma dello sradicamento c'è stato. Le testimonianze sono avare di racconti e di ricordi, ma la tragedia di questo popolo costretto a cambiare radicalmente sistema di vita per sopravvivere si intuisce dai silenzi che si ottengono in risposta alle domande sulla loro vita dì uti tempo, dalla melanconia che appanna gli occhi degli uomini quando vedono passare in lontananza una mandria di cammelli seguiti dai pastori che misurano il loro passo con quello indolente degli animali. Ahmed dama Abdullah. direttore dell'ente per lo sviluppo della sedentarizzazione, mi dice che durante la carestia il governo aveva istituito campi di soccorso per oltre 250 mila persone: «Meno del'a metà, passata la crisi, hanno deciso di fermarsi. Gli altr: sono tornati alla loro vita errabonda. Ma non li abbiamo abbandonati: prima non esistevano contatti fra le autorità centrali ed i nomadi, adesso abbiamo creato delle unità veterinarie mobili che seguono le carovane, ambulatori medici in prossimità dei poi.!à, scuole per i loro figli. Anche se hanno scelto di vivere nel nomadismo, non sono più soli ed abbandonati come un tempo ». Un altro grosso impegno assunto dal governo nel 1973 è stato quello dell'alfabetizzazione. Si proponeva quattro obiettivi: fare un censimento della popolazione, fornire a lutti i primi rudimenti igienico-sanitari, creare una coscienza politica, inventariare le risorse economiche nazionali. Per sette mesi le scuole secondarie della nazione sono state chiuse, oltre 25 mila studenti sono stati sparpagliati in tutto il paese per insegnare a leggere e scrivere ai nomadi. « I nostri detrattori dicevano che avremmo sprecato del tempo, dice Ahmed dama, ma si sono sbagliati. I nomadi hanno accolto con entusiasmo l'iniziativa, hanno preso coscienza delle proprie responsaf-ilità, hanno capito che la vita in comunità non intacca la dignità dell'uomo ma contribuisce ad elevare il tenore di vita dei singoli. Per la prima volta nella sua storia il popolo somalo ha imparato a conoscersi ». In quegli anni sono sorte le tre comunità agricole di Sablale, Dujuma e Kurtunwarei, nella regione del basso Scebeli. Ho visitato il villaggio di Sablale: due anni fa in questa zona non c'era nulla, cinquemila ettari da strappare alla sabbia del deserto, trentamila nomadi sedentarizzati in lotta col destino, che ogni giorno partivano all'alba per scavare la terra arida, costruire canali, deviare le acque dei fiume Scebeli. Adesso gli ettari coltivali sono più di 700, hanno seminato mais, fagioli, sesamo, pomodori e peperoni. Hanno seminato anche il riso, una qualità che non cresce nell'acqua, come quello del nostro Vercellese, ma che richiede soltanto una modesta irrigazione. « Pino all'anno scorso il governo ha provveduto a dar da mangiare agli abitanti di Sablale, adesso i nostri prodotti arrivano sul mercato di Mogadiscio », mi dice Ahmed Scefc Ahmed, presidente della provincia. Mi portano in giro per i campi: ovunque ci sono donne e uomini al lavoro, i bambini fanno la guardia per scacciare gli uccelli che ar¬ rivano a migliaia attratti dalle colture. Più lontano altri uomini sono impegnati in un lavoro incredibile: fermano le dune di sabbia che sospinte dal vento minacciano di travolgere i campi coltivati. Tecnici stranieri avevano detto che per fermarle bisognava cospargerle di resine e olio bruciato. Ma i somali non avevano né resine né olio da bruciare. Hanno fatto ricorso agli insegnamenti della tradizione ed hanno piantato cactus e fichi d'india. Le dune adesso non si muovono più. La sabbia è stata ancorata, il pericolo sventato. « Tireremo fuori la ricchezza dalla terra », cantano i bimbi mentre corrono agitando le braccia, fantastici spaventapasseri umani, per scacciare gli uccelli. Ogni ora è vissuta con gioia, con determinazione: il tempo che passa non ha più il senso di una condanna da accettarsi con rassegnazione, come accadeva quando vivevano isolati nella boscaglia, aspettando qualcosa che non arrivava mai: la pioggia, un incontro casuale, il suono di una voce amica. Francesco Fornarì Inchiesta de "L'Editore" Le coste somale sono pescose, ma i pescherecci ancora troppo pochi (foto dell'autore)

Persone citate: Ahmed Scefc Ahmed, Bascir, Brava, Hagi Bascir