L'irrazionale atmosfera all'interno del bunker ed una angosciosa realtà di omicidi e di rabbia
L'irrazionale atmosfera all'interno del bunker ed una angosciosa realtà di omicidi e di rabbia Il processo alle Br si svolge su due piani incredibilmente opposti L'irrazionale atmosfera all'interno del bunker ed una angosciosa realtà di omicidi e di rabbia Dentro: assalti di fotografi, imputati sorridenti, riunioni nella "gabbia" simili alle mischie delle partite di rugby - Fuori: un'altra vedova ed una città ferita dal terrorismo, che ha reagito unita e commossa A sciogliere i dubbi ci hanno pensato loro: « Un nucleo armato delle Brigate rosse ha giustiziato il maresciallo Rosario Berardi... » annuncia il solito ciclostilato con la stella a cinque punte lasciato in una cabina telefonica trenta ore dopo l'attentato. Una conferma scontata per gli inquirenti: la prima inequivocabile risposta l'avevano già data i proiettili estratti dal corpo martoriato del poliziotto fulminato alla fermata del tram, quattro sicuramente sparati da una « Nagant » 7,62, rivoltella di tipo identico — se non esattamente la stessa — a quella che in un'allucinante successione ha ucciso Fulvio Croce e Carlo Casalegno e ferito alle gambe Visca, Puddu, Cocozzello, Camaioni, Osella. Una conferma forse anche per i quindici principali imputati del processo che stamane affronta un'altra faticosa tappa preliminare. Il « comunicato numero nove » che Maurizio Ferrari sabato mattina non ha potuto leggere durante l'udienza plaude infatti ambiguamente alla nuova « esecuzione » (« una vittoria che si inscrive nella linea dell'attacco ai centri nevralgici dello Stato imperialista », da non interpretarsi pe¬ rò come « rappresaglia legata direttamente alle vicende processuali») ma non suona — contrariamente ai « precedenti » di Coco e Croce — come un'aperta rivendicazione « politica » dell'assassinio a sangue freddo di un « servo dello Stato ». Uno scavalcamento di potere dei capi « storici » delle Br, si è ipotizzato. Il volantino nella cabina taglia la testa al toro solo per quanto riguarda la strategia: l'obiettivo è la « guerra aperta », il processo interessa tanto ai compagni « vincenti » (i brigatisti in libertà) quanto ai «perdenti » ( quelli detenuti, « bruciati » ) in quanto « momento » della guerra tra la «borghesia imperialistica » e quel « proletariato metropolitano » che proprio sabato pomeriggio ha offerto la misura della sua partecipazione alla « battaglia » con la commossa, imponente presenza ai funerali del maresciallo Rosario Berardi. Ripetutamente ferita, Torino ancora una volta ha dovuto rispondere al terrorismo accanto a una vittima inutile di questa guerra senza sbocchi, come da mesi risponde con la ferma determinazione ad arrivare finalmente a una sentenza per il processo che già in due occasioni ha subito forzati rinvìi. Le ultime notizie dicono più limitato di quanto si era I temuto il rischio di un bloc- j co prolungato del procedimento a causa della sentenza della Cassazione che ha affidato alla corte d'assise torinese la competenza per un altro giudizio contro sei brigatisti istruito a Milano. Se oggi verrà superato, com'è nelle attese di tutti, lo scoglio della formazione del collegio di difesa (tre dei cinque penalisti nominati ieri dal presidente Barbaro hanno già annunciato dì accettare l'incarico) il processo dovrebbe dunque entrare finalmente nella sua fase cruciale. Il ritratto offerto finora dal « momento di guerra » che si svolge nell'aula-bunker al primo piano dell'ex caserma Lamarmora è sconcertante. C'è un salto incredibile tra la ten\ sione che si avverte all'esterno e l'atmosfera quasi rilassata all'interno, sul luogo dello scontro: imputati sorridenti oltre la siepe di carabinieri, giornalisti a grappoli, fotografi e operatori televisivi impegnati in complicate acrobazie per ritrarre in innumerevoli pose improbabilmente diverse un profilo di Nadia Mantovani, uno scorcio della barba di Curdo, un gesto insofferente di Ferrari... Per tre mattine identica coreografia: all'ingresso in aula dei brigatisti, raffica di scatti degli obiettivi mentre si accendono i riflettori per la televisione (anzi, per le televisioni), sedie rovesciate, gomitate, richiami («dai Renato, ritarda un po' qua»), Vanendone più al fotografo di Pa rLs Match issato chissà come su un trave del soffitto che all'ingresso della corte. Sabato: «Maurizio, Maurizio», una voce dal fondo, a udienza sospesa, fa accorrere ì fotografi. In piedi sulle transenne, la compagna di Ferrari: «L'avete già fotografato abbastanza, no? Fatelo vedere un po' anche a me». Dalla gabbia, il «portavoce», abituale dei brigatisti agita la mano, saluta a pugno chiuso. Un'ora prima, la voce del presidente Barbaro era risuonata per la prima volta stanca, esitante, nell'annunciare di aver nuovamente ricevuto dal comandante della scorta una busta con un comunicato dei detenuti. Umano e disumano si rincorrono, si intrecciano, in questo processo che sa così poco di ritmo consueto delle aule giudiziarie: è una immagine distorta, irreale quella che si presenta di volta in volta agli «spettatori» del «processo alle Br», emersi da una serie di rigidi controlli che si vorrebbe sepolti in ben altri momenti della storia e che la presenza di questi quindici ragazzi dall'aspetto tanto poco pericoloso ha reso mecessari. Sei lì, a pochi passi da loro, li osservi mentre accendono la sigaretta, scherzano, si riuniscono a «testuggine» come in una partita di rugby (elaborano qualche particolare della loro strategia?) e a fatica li colleghi con ì sequestri, le rapine, le «esecuzioni». Più che spaventare, la loro lucida coerenza distruttiva e autodistruttiva lascia stupefatti. Giovedì, giorno della prima udienza, quando i giudici popolari incuranti dell'intimidatorio comunicato letto poco prima da Ferrari, accettarono in misura imprevista l'incarico, si pensava, ci si diceva: «Ecco, è fatta, la paura non ha vinto, questa volta». Sembrava impossibile che l'«azione» annunciata si traducesse in realtà. Puntuale, il commando ha colpito, poche ore dopo, proprio qui, in una Torino inverosimilmente assediata. Li rivedi il giorno dopo, tranquilli, sorridenti. La sfasatura fra realtà e irrealtà si accentua. Guardi i volti tesi degli agenti, senti le voci irose tra la gente che si assiepa in corso Ferrucci, davanti alla caserma: «Ma perché non la fanno finita?». «A Stammheim hanno trovato la soluzione, no?». Il cerchio si chiude. A questo si voleva arrivare? «Je l'ai connu, Curcio, il y a dix ans, à Trento. Très I sympathique, très intelligent. Je ne comprends pas ce qui est lui arrivé...», mi ha detto sabato l'inviato di Le Monde. «Ho. conosciuto Curcio dieci anni fa, a Trento. Un ragazzo simpaticissimo, molto intelligente. Non capisco cosa gli sia accaduto»: già, cos'è successo? Dieci anni fa: il 1968, le speranze, le premesse — dicevano molti — di un mondo migliore. Dieci anni dopo, quattromila agenti a Torino per proteggere, inutilmente, lo svolgimento di un processo che gli stessi brigatisti vogliono fare \ per dimostrare «che non si ! può processare la rivoluzioì ne». Un commando efficiente, I addestratissimo — come assi'' cura il capo del Digos (ex Antiterrorismo), Fiorello — detta le regole del gioco. Un tragico, assurdo gioco. Maurizio Spatola
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