I tesori d'arte non sono un lusso

I tesori d'arte non sono un lusso DIFESA DEL NOSTRO PATRIMONIO I tesori d'arte non sono un lusso Roma, 5 marzo. «Nessun partito, nelle trattative per il nuovo governo, ha ricordato un gravissimo indilazionabile problema: quello dei provvedimenti per il patrimonio artistico e storico», scriveva Carlo L. Ragghiatiti su « La Stampa » del 27 dicembre 1968. Siamo nel 1978, potremmo ripetere le stesse parole, rinfrescando soltanto i dati relativi ai furti di opere d'arte, ai crolli di monumenti, alla cancellazione di affreschi e mosaici (pensiamo alla basilica di Torcello), alle vendite all'estero. I furti erano poco più di mille l'anno sino al 1967; dal 1970 la media supera i duemila, comprendendo casi clamorosi come quelli della pinacoteca di Urbino, della collezione Grassi a Milano. Si calcola che i danni dovuti ai ladri e alla cattiva conservazione nel nostro patrimonio artistico si aggirino quotidianamente sul miliardo di lire. E' una stima, perché nessuno conosce il dato di fondo: quante sono le opere d'arte, quanti sono i monumenti in Italia? Il censimento, o catalogo dei beni artistici, fu deciso per legge nel 1907. Dopo 70 anni sono catalogate 500 mila opere, e si presume che il totale arrivi a 10 milioni. I ritardi e l'impotenza, giustificati di volta in volta con la povertà dei fondi disponibili e del personale, sono divenuti regola, con poche eccezioni tanto più lodevoli. Una collezione privata di valore straordinario, della Contini Bonacossa può essere dispersa e in buona parte trasferita all'estero (il museo del Louvre ha acquistato un Piero della Francesca per un miliardo e 400 milioni). A Pompei si rubano tranquillamente 12 affreschi, mentre si apprende che tre miliardi stanziati per restauri, recinzioni, antifurto, non sono mai arrivati a destinazione. L'incuria e l'inquinamento atmosferico hanno causato enormi danni a Venezia (chi non ricorda il celebre cartello alla Salute: «Caduta angeli»}) come a Verona in San Zeno, a Mantova (gli affreschi del campanile di San Domenico), a Firenze (celebre il caso della Madonna di Lorenzo Bicci visibile totalmente nel 1910 e quasi scomparsa nel 1955), a Siena, a Roma, in tutte le città d'arte. I tre poderosi volumi della «Commissione Franceschini» pubblicati nel 1967, erano un tremendo e documentato atto di accusa alla classe dirigente e alla società intera, tanto più nell'appendice che fotografava deturpazioni e distruzioni da Agrigento a Bolzano. Perché continuiamo a ripetere le stesse denunce da tanti anni? Che cosà è stato fatto, che cosa si sta facendo? Le responsabilità, tanto più quelle di provvedimenti riparatori, sono da ricercare soltanto in Parlamento, nei governi, nelle amministrazioni regionali e comunali, oppure sono in parte responsabilità di tutti noi? Non c'è mai stata una domanda pressante, esercitata anche in periodo elettorale, per la tutela e il miglior uso del patrimonio storico, artistico, ambientale. Pochi uomini politici pensano di ottenere voti promettendo di occuparsi di musei, monumenti, centri storici. Gli elettori non hanno sinora richiesto il rendiconto dei danni subiti, né impegni precisi per il futuro. L'atteggiamenro della massa dei cittadini può essere spiegato con la deficienza dell'informazione (le nostre colpe di giornalisti) e con una arretratezza culturale che fa chiamare in causa intellettuali, artisti, letterati, tecnocrati, scienziati. Quanti bei « formatori di opinioni», titolari di rubriche o assidui protagonisti di dibattiti giornalistici e televisivi, si sono costantemente impegnati a mettere in evidenza lo straordinario valore del nostro patrimonio artistico, storico, paesistico e a chiederne la tutela e il restauro? Quanti hanno lottato per la difesa dell'ambiente e del territorio? Il sindacato di polizia, la riforma delle mutue, il problema dell'aborto, l'ordine pubblico, la scuola e l'Università, sono certamente problemi indilazionabili. Possono costituire alibi per rinviare di generazioni, non dico di anni, il problema dell'Italia che sta cancellando se stessa e la sua cultura? « In tempi calamitosi non c'è spazio per le arti, i monumenti, il paesaggio, l'ambiente pulito », è un luogo comune ripetuto o lasciato filtrare dai cultori della filosofia più rozza del cosiddetto «progresso». Usano tali luoghi comuni anche intellettuali avanzati, sensibilissimi agli scatti di umore della società contem¬ poranea ma ironici verso l'ecologia (non riducibile alla lotta agli inquinamenti o alla tutela dell'orso d'Abruzzo), verso chi tenta di sottrarre l'Italia a uno sviluppo distorto, sostanzialmente incivile. Umberto Eco, in polemica con gli ecologi, ha citato Brecht: « Quando viene il tempo degli assassini anche parlare di alberi può essere un delitto ». Ma Brecht si riferiva a ben altro, cioè al disimpegno. Nel tempo delle P38, del terrorismo fattosi tema, sarebbe delitto insistere per la riforestazione e il riassetto idrogeologico che possono risparmiare all'Italia mille miliardi l'anno di danni per alluvioni e frane? Non troviamo forse nella sottocultura che alimenta la violenza, che ha tollerato la rapina del territorio, che ostenta disprezzo per la natura, per l'uomo (la morte fatta spettacolo quotidiano anche in televisione), per la storia e le arti, per la bellezza, i germi del nostro disfacimento? Non fu in tempi durissimi che l'Unione Sovietica salvò i tesori d'arte della Russia? Restauro e conservazione del patrimonio storico artistico creano posti di lavoro. Dobbiamo ripeterlo per rovesciare i luoghi comuni che vorrebbero riservare tali impegni ai momenti di prosperità, quasi fossero lussi da ricchi. Nei centri storici abbiamo un patrimonio di 8 milioni di vani in pessime condizioni, sottoutilizzati o abbandonati, che potrebbero dar lavoro a 300 mila operai dell'edilizia per vent'anni, risolvendo al 50 per cento il tremendo problema dell'abitazione in Italia. Il governo Andreotti aveva abbozzato un piano per l'impiego di giovani nel riordinamento e nel restauro di musei e aree archeologiche; si parlò di 14 mila posti di lavoro, più di quanti ne offrano tante industrie tenute in vita con centinaia di miliardi di denaro pubblico per produrre beni superflui o addirittura nocivi. Non ci fu una campagna di appoggio a quella proposta, non se ne trova traccia nelle trattative dei partiti. Lo stesso censimento delle opere d'arte, dei monumenti, delle località di grande valore paesistico, darebbe lavoro a migliaia di studenti per molti anni. Con 50 miliardi, somma oggi modesta, si rimetterebbero in efficienza le più importanti biblioteche nazionali. Il raddoppio del personale addetto ai musei e alle gallerie richiederebbe poche decine di miliardi l'anno e offrirebbe diecimila posti di lavoro. « Nel tempo degli assassini » troviamo migliaia di miliardi per le centrali nucleari, sostituibili e non indispensabili, per le portaerei e per le navi lanciamissili. Nel tempo del « miracolo economico » avevamo trovato 45 miliardi per pagare gli architetti che progettavano la ricostruzione del Belice terremotato, mai avvenuta. Si può ancora immaginare un largo consenso a questo potere politico e culturale? Il ministero dei Beni culturali, istituito nel 1973, non ha portato frutti di rilievo storico. Va però ricordato l'intenso sforzo di restauro e di ricerca degli ultimi anni nelle città d'arte (i disegni murali presso le tombe medicee) e nelle zone archeologiche. Il passaggio dei poteri alle Regioni, pur avvenuto in modo confuso e incompleto, fa intravedere qualche segno di speranza. Quasi tutte le Regioni hanno approvato leggi per i musei e gli istituti culturali, hanno promosso censimenti e ricerche (Emilia Romagna, Trentino Alto Adige), hanno facilitato la nascita di consorzi di comuni per la gestione di musei, biblioteche, servizi culturali (Umbria, Calabria). Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna possono vantare scuole per restauratori. La giunta regionale della Campania ha varato una legge che prevede lo stanziamento di 3 miliardi e 700 milioni per valorizzare i beni culturali. Le Regioni, pur esitanti e afflitte da mali politici e burocratici, sono protagoniste di un movimento innovatore che tende a superare il vecchio equivoco del « museo vivo », proponendo accanto alle gallerie d'arte musei interdisciplinari come sedi di documentazione, ricerca, reinvenzione: dall'edilizia rurale agli strumenti agricoli, agli attrezzi da pesca, alla storia locale, ai canti popolari, all'evoluzione del territorio attraverso i secoli. Si moltiplicano i musei sperimentali (importante quello di arte moderna a Bologna), del folclore e i musei naturalistici, non più dotati di bacheche contenenti animali impagliati e qualche pietra, ma aperti sull'ambiente esterno, utilizzati come palestre. Non è un problema di costi, ma di cultura. Non dobbiamo rinunciare, proprio in tempi durissimi, a diventare un paese più civile. Per farlo è necessario ricordarci dell'ambiente o dei tesori d'arte non soltanto quando ce lo impongono le alluvioni o i furti di un Giorgione, di un Masaccio, di un Mantegna, aggiunti ai mille altri che abbiamo presto dimenticato. Mario Fazio