Comunisti, 25 anni dopo Stalin

Comunisti, 25 anni dopo Stalin Cosa è cambiato nel pei dal "rapporto Kruscev^ ad oggi Comunisti, 25 anni dopo Stalin Nonostante la "prudenza" di Togliatti, s'innescò un processo di autocritica fra i marxisti italiani - Amendola: "Il rinnovamento era cominciato prima" - Le difficoltà della base a "digerire" la destalinizzazione «Concittadini, compagni! Una grave, irreparabile sciagura ci ha colpiti tutti. E' morto Giuseppe Stalin, l'Uomo al quale milioni di operai, di contadini, di intellettuali italiani guardavano con fiducia e affetto, come al loro capo e alla loro speranza. Profondo è il nostro cordoglio. Davanti al genio immortale di Stalin si inchinano i potenti della terra. I popoli lo piangono, come si piange la perdita di un padre. Stalin è l'Uomo che più di tutti ha lavorato e combattuto per spezzare le catene dello sfruttamento e dell'oppressione. A questa causa ha dedicato tutta la Sua eroica esistenza». Così iniziava, su «l'Unità» del 7 marzo 1953 (sono 25 anni domani) il documento ufficiale del Comitato Centrale del partito comunista italiano in occasione della morte dell'onnipotente leader sovietico. Press'a poco tre anni dopo, il 21 marzo 1956, in un articolo di fondo sullo stesso organo del pei, Pietro Ingrao commentava «le conseguenze dannose del culto della personalità e alcuni errori gravi compiuti dal compagno Stalin». Che cosa era successo nel frattempo? Era scoppiata, come ben sappiamo, la «bomba» del XX Congresso del partito comunista dell'Unione Sovietica, in cui l'uastro nascente» Kruscev aveva drammaticamente rivelato le colpe e i crimini del defunto dittatore georgiano. Quel travagliato periodo resta indubbiamente uno dei nodi più complessi della realtà politica italiana del dopoguerra, perché ad esso è legata la discussione, all'interno e all'esterno del partito, sul processo di «rinnovamento» del pei: una discussione — come chiunque comprende — più che mai d'attualità nel momento in cui il partito di Berlinguer sta per varcare la soglia della partecipazione al governo nazionale. Uno dei punti di partenza più illuminanti può essere la relazione che l'allora segretario Togliatti presentò al Comitato Centrale del partito comunista al suo ritorno dal XX Congresso (e pubblicata integralmente nelle prime tre pagine de «l'Unità» del 15 marzo 1956). Una relazione giocata sul filo della consueta abilità dialettica e della prudenza, tutta centrata sui grandi successi dello sviluppo socialista in Urss e sulle «novità di atteggiamento» espresse dal XX Congresso (tra cui, in primo luogo, «l'esatta valutazione della modificata realtà mondiale»). Il commento sulle rivelazioni a proposito di Stalin era relegato nella parte finale, preceduto da un ampio riferimento alla sua grandezza incrollabile («Nessuno di noi crede che si possa annullare, distruggere, ciò che egli è stato nella rivoluzione russa e nel movimento internazionale... Stalin è stato un grande pensatore marxista») e limitato ad una pura e semplice critica delle «deviazioni del culto della personalità» e della «violazione della legalità socialista». Sappiamo bene che neppure la prudenza togliattiana («Ci aveva nascosto le cose più grosse», ricorda Amendola) riuscì ad evitare l'innesco di una catena di reazioni, soprattutto ai vertici intellettuali del partito: dapprima una forte autocrìtica, emergente già tra le pieghe del dibattito a guel Comitato Centrale del marzo '56 (ad esempio negli interventi di Amendola, Terracini, Ingrao); quindi veri e propri episodi di «dissenso democratico», che scoppiarono con violenza maggiore sei mesi dopo, durante la repressione sovietica della rivolta ungherese (furono espulsi o radiati Giolitti, Calvino, Eugenio Reale, Onofri e altri). Ma la prudenza togliattiana ebbe miglior gioco con la base operaia del pei, già di per sé poco propensa ad accettare l'abbattimento del mito del «buon pa- dre» legato alla figura di Stalin. Chi nega che il partito comunista della seconda metà degli Anni Cinquanta fosse un partito già in qualche modo «rinnovato», cita proprio «l'operazione togliattiana di mascheramento della destalinizzazione» come una prova inconfutabile; e trova una conferma ancora maggiore nell'atteggiamento del pei nei confronti dell'intervento armato sovietico in Ungheria, quando — come sostiene Onofri — «Togliatti rimontò anche apertamente sul cavallo stalinista». Secondo questa impostazione, se passi avanti vi sono stati in quegli anni in seno al pei, si è trattato soltanto di «merce d'importazione», ossia dì puri e semplici adeguamenti (spesso non graditi) alle ventate provenienti dalle lotte di potere nell'Urss, le quali «coglievano il pei di sorpresa». Da parte comunista, si tende da un lato a confutare l'interpretazione riduttiva degli effetti del XX Congresso. La domanda «Sapevate? Non sapevate?», è semplicistica, sostiene Pajetta. «In realtà, si sapeva che la lotta politica in Urss si era esasperata e che i processi ai controrivoluzionari ne avevano costituito la parte più oscura. Ma fu certamente un trauma scoprire ohe i guasti erano stati cosi profondi, e ohe per tanti anni era prevalso l'arbitrio in misura tale da snaturare tutto il tessuto sooiale, da provocare una vera e propria degenerazione. La situazione ci apparve d'un tratto assai più grave di quella che avevamo supposto anche quando ci eravamo rivolti con spirito critico ad esaminarla. Questo ci indusse a riflettere, a proporre, noi stessi, la necessità di cambiamenti, a resistere a coloro che tendevano a considerare il XX Congresso come uno choc che poteva essere evita¬ to. Lo accettammo invece come un momento liberatorio, stimolante». Ma la «difesa» comunista non si ferma qui: d'accordo sullo choc del XX Congresso, ma in realtà il rinnovamento del partito era iniziato ben prima. E' la tesi esposta da Amendola nella sua recente «Intervista sul rinnovamento del pei», tesi che lui ed altri (Bufalìni, Cervetti, Ghini) hanno ribadito in un dibattito sul penultimo numero di «Rinascita». Amendola tiene a sottolineare, anche, l'origine interna della destalinizzazione del pei: «Altro che merce d'importazione — egli dice —. Si trattò invece del risultato di una tensione critica nei confronti di certi aspetti della vita del partito e del rapporto tra il partito e le masse dei lavoratori italiani, che si espresse nell'allargamento della politica delle alleanze promossa da Togliatti». Ghini giunge a conclusioni ancora più favorevoli: «La nostra base — dice — settaria, stalinista quanto volete, accettava tuttavia alcuni elementi pratici che contraddicevano il suo stesso stalinismo». Questo perché, secondo lui, «il partito aveva già seminato qualche cosa che, se pure non permise di superare il trauma in maniera indolore e spontanea, dette tuttavia alla base la possibilità di non rifiutare le denunce e le grandi novità di quegli anni». Carlo Sartori Giorgio Amendola

Luoghi citati: Ungheria, Unione Sovietica, Urss