Se discriminazione significa privilegio

Se discriminazione significa privilegio Se discriminazione significa privilegio Discriminazione è parola che, nell'uso corrente, suscita riprovazione e sospetto. Nominarla significa evocare il ricordo di foschi episodi del passato e di altri, non meno crudeli, del presente: le interdizioni di cui furon oggetto per secoli le minoranze religiose, la persecuzione del dissenso, le leggi razziali. La nostra Costituzione, pur non menzionandola espressamente, esclude e condanna la discriminazione in qualunque sua forma, stabilendo all'articolo 3, 1° cpv., che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali». Ma tutti sappiamo con quanta tenacia talune discriminazioni tutt'ora sussistano anche in una società democratica come vorrebbe esser la nostra: discriminazioni segnate dal censo, dall'educazione, dal ceto sociale. Forse, sotto questo rispetto, l'Italia è in condizioni migliori di altre nazioni: la discriminazione della ricchezza è di quelle che il variar della fortuna può eliminare nel giro di una generazione; quella del ceto è certamente meno marcata da noi che altrove. Ma ci sono paesi dove la discriminazione sembra segnata dalla stessa natura: dal diverso color della pelle, ad esempio, che nessun artifizio è ancor riuscito a cancellare. Sebbene più di un secolo sia trascorso dall'emancipazione degli schiavi, e, in questi ultimi decenni, innumerevoli provvedimenti legislativi e giudiziari abbiano cercato di abbattete la barriera che separa i negri dai bianchi, gli Stati Uniti d'America ci offron l'esempio di quanto sia difficile stabilire l'uguaglianza ed eliminare la discriminazione quando a ciò si oppongano, oltre ai pregiudizi ed alla pesante eredità del passato, le stesse caratteristiche somatiche dei cittadini. Nonostante tutto, i negri sono e rimangono inferiori ai bianchi: inferiori nei mezzi e nelle condizioni di vita, nell'educazione e nelle attività professionali. E poiché quei provvedimenti che miravano ad attuar l'uguaglianza si son dimostrati sinora insufficienti allo scopo, vari e interessanti tentativi si stanno compiendo, per ispirazione di circoli più illuminati del paese, onde colmare il fossato, e favorire, almeno nei riguardi dell'istruzione, una maggior parità fra le due razze. Tutti abbiamo sentito parlare del bussing, della mescolanza e dell'integrazione delle scolaresche mediante il trasporto degli scolari da una zona all'altra di campagne e città. Meno si sa da noi, se non vado errato, di un altro accorgimento, adottato nei riguardi dell'istruzione superiore, un mezzo singolare e in un certo senso discutibile, che sta suscitando aspre polemiche, e la cui legittimità è oggetto di contestazione davanti ai tribunali. Ecco i fatti. Per assicurare ai negri, forniti per lo più di una preparazione inferiore a quella dei bianchi, la possibilità di accesso agli studi universitari, alcune Università americane hanno instaurato il sistema di riservare ai candidati di colore una certa percentuale dei posti disponibili, escludendone i bianchi. Nel 1971 un tal De Funis, un giovane ebreo, si vide rifiutare l'ammissione all'Università dello Stato di Washington, pur avendo conseguito, negli esami preliminari, un punteggio medio assai superiore a quello dei trentasei candidati «minoritari» ammessi in base alla percentuale preferenziale. Il De Funis fece causa alla Università appellandosi al 14° Emendamento della Costituzione statunitense, emendamento che, emanato nel 1868 alla fine della guerra civile, sancisce l'eguaglianza di tutti i cittadini e il divieto ai singoli Stati dell'Unione di limitarne in qualsiasi modo i diritti. La causa giunse sino alla Corte Suprema, ma questa, in vista del fatto che il De Funis nel frattempo era stato ammesso all'università, la lasciò cadere senza pronunciarsi. Nel 1973, e successivamente l'anno seguente, un altro studente, di nome Bakke, subì un trattamento simile a quello del De Funis da parte di una delle Scuole di Medicina dell'Università di California. La scuola non aveva che un centinaio di posti disponibili; i candidati eran più di tremila. Sedici ammissioni erano riservate ai candidati della minoranza. Alcuni di questi avevano un punteggio di poco superiore al 2; il punteggio di Bakke era 3,5. Ciononostante la sua domanda venne ripetutamente respinta. Bakke accusò l'Università né più né meno che di razzismo. L'Alta Corte della California gli diede ragione. La causa è ora dinanzi alla Corte Suprema. Non è certo difficile capire perché, in attesa del giudizio della Corte Suprema, i due casi che ho sommariamente riassunto abbiano destato tanto scalpore nell'opinione pubblica americana. Lasciando da parte l'accusa di razzismo, ovviamente polemica, si tratta, si potrebbe dire, di una specie di discriminazione a rovescio, dove il colore, anziché causa di minorazione, diventa fonte di privilegio, garanzia di accettabilità. Ma poiché concedere un vantaggio a qualcuno significa sempre infliggere uno svantaggio a qualcun altro, non è da stupire che la parte lesa abbia reagito vivacemente, denunciando la discriminazione insieme al privilegio concesso a suo danno. Né sorprende che la controversia, poco alla volta, abbia finito per sollevare gravi e delicate questioni di principio. A ben vedere, quello che è in gioco è il problema del rapporto fra merito e uguaglianza, il problema centrale dello Stato democratico moderno. E' sotto questo profilo che la controversia di cui ho fatto cenno mi sembra presentare, in questo momento, un certo interesse anche per noi. Si dirà: in Italia non abbiamo, per nostra fortuna, problemi razziali, e le nostre autorità accademiche non si sognano, a quanto pare, di introdurre il «numero chiuso», la limitazione numerica delle iscrizioni all'Università. Ma cos'altro significa tutto que-1 sto clamore per il 6 politico ed il 27 garantito se non un tentativo di radicalizzare l'uguaglianza a scapito del merito, e di scalzare il privilegio dei «Pierini», che giungono al traguardo meglio preparati di coloro che hanno passato la giovinezza nei campi o nelle officine? Qualora poi, com'io stesso da queste colonne mi avventurai un giorno a suggerire, anziché ricorrere a medicina cosi forte ma cosi dissennata, si cercasse di imitare il sistema americano, riservando condizioni preferenziali a un certo numero di studenti in vista della loro provenienza e della loro estrazione sociale, non si ricadrebbe in una forma di discriminazione, in un'ingiustizia non dissimile da quella contro cui sono insorti i due studenti di cui ho narrato il caso? A me sembra che l'ideale, per chi serbi ancora fiducia nella libertà e nella democrazia, dovrebbe essere una società in cui non ci sia posto né per la discriminazione né per il privilegio. Temo però che una società di tal fatta non si vedrà (per usar una espressione di Bobbio) che il j giorno in cui sia adempito l'impegno contenuto nel 2° capoverso dell'articolo della nostra Costitu- ' zione che citavo all'inizio, sino a quando cioè non siano stati rimossi «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». A. Passerin d'Entrèves

Persone citate: Bakke, Bobbio, Passerin, Pierini

Luoghi citati: California, Italia, Stati Uniti D'america, Washington