Roma: quasi baruffa del pubblico per il "Don Chisciotte" con Bucci

Roma: quasi baruffa del pubblico per il "Don Chisciotte" con Bucci Lo spettacolo del regista Pugliese sotto il Teatro Tenda Roma: quasi baruffa del pubblico per il "Don Chisciotte" con Bucci (Nostro servizio ■particolare) Roma, 20 marzo. Un'occasione mancata: ecco, sommariamente, il giudizio che mi sembra si possa dare del Chisciotte, allestito in prima assoluta sabato scorso dalla compagnia Il teatro libero, sotto l'ampia cupola del Teatro Tenda a Strisce, sulla Cristoforo Colombo, a Roma. C'era molta attesa, tra il pubblico, per questo spettacolo. Anche chi non l'ha letto o riletto ieri, prova un'attrazione irresistibile verso il capolavoro cervantino. Al nome di Cervantes si aggiungeva, nel sottotitolo, quello di un riduttore illustre, Michail Bulgakov, che col Maestro e Margherita ha conquistato migliaia e migliaia di lettori. E si voleva vedere alla prova d'un grande personaggio un attore come Flavio Bucci, dopo il vecchio successo cinematografico (La proprietà non è più un furto) e quello, recente, televisivo (Ligabue). I critici teatrali avevano poi preso appuntamento col regista, Armando Pugliese, un napoletano intemperante, che ha al suo attivo almeno un grosso e meritato successo, Masaniello. Insomma, le premesse c'erano tutte perché si stabilisse una diretta complicità tra spettatori e interpreti. E, invece, proprio dagli spettatori sono venute le prime ostilità. Un grosso contingente stava assiepato sulle gradinate che circondano la pista del teatro circo. Una élite più ristretta, che aveva probabilmente avuto l'imbeccata dai soliti amici degli amici degli attori, se ne stava a bella posta in piedi, nel mezzo della pista: perché aveva capito che questo era uno spettacolo da godersi, come ora si dice, « a contatto diretto ». Aveva ragione la minoranza dei bene informati (quando mai, in questo paese di gente che la sa lunga, hanno ragione i semplici, che pure sono la maggioranza?). Ciò non tolse che i « candidi molti » non gradissero affatto di non potere vedere, sentire e capire alcunché: e ci mancò poco si passasse a vie di fatto. Si trovò (anche questo è molto italiano!) un onorevole compromesso: chi vuole stare nella calca e vedere tutto da vicino, stia; chi vuol godersi la sua sediolina metallica, se la goda, a scapito della percezione visiva e acustica. Vi ho messo a parte di questi dati di cronaca perché sono tutt'altro che effimeri e marginali. Luca Ronconi, di cui Pugliese è stato in età pressoché adolescenziale aiuto regista, quando volle realizzare il primo spettacolo popolare e di piazza, ed era l'Orlando Furioso, lo fece proprio in piazza: e di sedie non c'era l'ombra. La gente, come ricorderete, seguiva i suoi beniamini che si muovevano sulle loro grandi plance, come giganteschi pupi siciliani: e si beveva battute e gesti, che aveva a portata d'occhi e orecchie. Pugliese lo stesso coraggio non l'ha avuto e ha realizzato qualcosa che sta pericolosamente a mezzo tra uno spettacolo da piazza e uno da platea. Ma ammettiamo anche si possa mettere su un Chisciotte programmaticamente ibrido, fruibile sia dallo spettatore peripatetico sia da quello statico. Allora bisogna mettere l'uno e l'altro in condizione di « partecipare »: e, per cominciare, portare almeno la voce degli interpreti, con tanto di « giraffe » o consimili microfoni penduti e mobili, a quanti hanno deciso di non mollare il loro posto a pagamento. Costoro, sabato sera, avranno recepito sì e no un venti per cento delle battute dell'ingegnoso hidalgo. Ma restiamo, per comodità di discorso, allo spettacolo di piazza. Questo tipo particolare di teatralità si fonda sulla prepotenza del testo e sull'aggressività degli interpreti. Uso « prepotenza » in senso stretto: voglio dire che la parola letteraria deve colpirti come un uppercut, avere la rozza, fascinosa violenza della parola primitiva. Quella vecchia volpe di Sanguineti avrà avuto il gioco facile a potare le stupende ottave ariostesche, nell'Orlando: sta di fatto che la parola del poema ti colpiva tonda e robustosa, scena dopo scena. Qui il testo è non più che piacevole e terribilmente generico. Già la riduzione di Bulgakov è una modesta cosa, sia detto con buona pace degli ammiratori del romanziere. Ma Pugliese non ci deve avere lavorato molto di suo. Invece, nella gran selva di questo stupendo romanzo, bisogna entrarci con la scure: ed avere il coraggio di menare gran colpi sulla vegetazione lussureggiante, per isolare un arbusto raro o scoprirvi una radura amena. Il Don Chisciotte è così vigoroso e saldo che non patisce colpi d'accetta, anzi quasi li invoca. E' davanti a capolavori siffatti che bisogna avere il coraggio d'essere tendenziosi. Sennò, si rischia (ed è purtroppo il caso di Pugliese) il riassunto, la sceneggiatura diligente: e Cervantes, mi dispiace, non accetta d'essere reso godibile. Il discorso sull'interpretazione va di pari passo. Bucci, che era il cavaliere dalla trista figura, è stato, ahimè, poco tristo (un bello spirito, al mio fianco, gli ha subito appioppato il nomignolo di Ligasciotte). C'è una nobiltà e una grandezza incommensurabili nella follia di Alonso Quijana. Egli è sempre due spanne più alto degli altri, anche quando è sbeffeggiato e deriso. Proprio allora, anzi, si staglia nel cielo dell'irraggiungibile: è l'eroe, splendido, dell'ideale e dell'utopia. Bucci non ha saputo rendere l'eccezionalità del personaggio: ne ha fatto un « diverso », ma pur sempre a misura d'uomo; il suo isolamento era quello dell'emarginato e dell'infelice: ed è troppo poco. Più a suo agio nei ruvidi panni di San- cio Panza mi è parso Gianni Cavina: ma il ruolo è meno complesso, ci si può adattare senza dare scandalo. Gli altri venti attori (ricordo almeno Micaela Pignatclli, Lombardo Fornara, Renata Zamcngo, Stefano Patrizi, altro prestito dal cinema) si prodigano giovanilmente in una sessantina di ruoli: ma non dimostrano d'avere acquisito quell'unità di intenti e di toni che diventa la cifra stilistica di ogni spettacolo organicamente concepito. Perciò non resta che godersi l'ingegnosa utilizzazione dello spazio scenico ideata da Bruno Garofalo: quattro luoghi deputati, come in un mistero medievale, da cui vanno e vengono, escono ed entrano, a gruppi, in processione o in gabbia, a piedi o in sella di destrieri di cartapesta, i varii figuranti. Deludenti, invece, le sparute canzoncine di Eugenio Bennato, fratello dell'altrimenti noto Edoardo. Guido Davico Bonino

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