A Tibnin con le truppe di Israele di Igor Man

A Tibnin con le truppe di Israele NEL VILLAGGIO OCCUPATO OLTRE LA FRONTIERA COL LIBANO A Tibnin con le truppe di Israele I cannoni continuano a sparare contro le posizioni dei fedayn, che rispondono con i "Katiuscia" - La battaglia continua? (Dal nostro inviato speciale) Tibnin (Sud Libano), marzo. Sabato mattina eravamo a Bin Jebel, un villaggio mu- \ sulmano occupato da Israele Erravamo per il paese \ sfregiato dai combattimenti {case sventrate, i buchi delle granate, pochi civili in giro), accolti con curiosità dai giovani soldati israeliani. Un Shabbath di guerra, per loro, confortato dalla presenza di religiosi: molti soldatini portano sul capo la kippa (la papalina degli ebrei) ma ce n'è uno che si è messo in testa un vecchio cappello Barbisio: «Preda di guerra», ride soddisfatto. Stavamo per tornarcene indietro, quando l'ufficiale di scorta: « Presto — dice — andiamo a Tibnin, si è appena arresa». E così, via di corsa in macchina, nel mattino splendido di sole. Ma per la strada, a Kumin, un villaggetto deserto, sentiamo volteggiare un piccolo elicottero che subito atterra su di uno spiazzo riquadrato da mezzi cingolati. «E' il generale Gur, capo di SJVI.» dice eccitata la nostra guida. Ci inerpichiamo su di un dosso, arriviamo mentre i soldati festeggiano Gur. Come va l'operazione?, gli domandiamo. «Stiamo ripulendo la zona ». E la resa di Tibnin? «E' una buona cosa. C'è da augurarsi che altri villaggi ne seguano l'esempio». Quando contate di finire il vostro «lavoro»? «Secondo un vecchio detto ebraico, le vicissitudini sofferte dal nostro Tempio ci hanno insegnato a non far previsioni...» e qui il generale Gur saluta e si imbarca sull'elicottero, puntando su Tibnin. Noi ci arriviamo molto più tardi percorrendo una straducola sconvolta dalle bombe. Spesso dobbiamo scendere dall'automobile per scostare i sassi che ci impediscono di procedere. L'ultimo tratto lo percorriamo a piedi, fino a raggiungere una sorta di pollaio in muratura. I prati sono smaltati di margherite gialle ma nell'aria vortica l'odore funesto dei morti ammazzati, mischiato a quello della polvere da sparo (pochi colpi di bazooka sono stati sparati dagli ultimi fedayn, asserragliati in una casamatta; gli israeliani li hanno uccisi). Un bulldozer sta spianando il bunker. Accanto al bunker, in un fosso, un cannoncino semovente. Nella baracca dove alloggiavano i palestinesi, una branda disfatta, un attaccapanni, due bombe a mano su di un ripiano accanto a mezza bottiglia d'acqua e a uno spazzolino da denti. I soldati han la barba lunga, appaiono stanchi. Ci indicano poco lontano una bandiera bianca che garrisce al vento del pomeriggio, dolce e primaverile, al culmine di una antica fortezza. E' stato Abbas Fawas, il capo villaggio di Tibnin a farla issare, in segno di resa. Tibnin è un villaggio sciita di 6000 anime. Non c'è alcun segno di guerra, le case sono intatte, i campi verdi. La gente cammina tranquilla per via, i ragazzini gettano caramelle ai soldati che avanzano sui mezzi cingolati. Ma il cannone romba non lontano (colpi che vanno, colpi che vengono) gli aerei sfrecciano nel cielo terso. La battaglia continua ancora? No, ci'spiegano, anzi altri sette villaggi musulmani si sono arresi, i notabili han chiesto l'ingresso degli israeliani «per mettere ordine». I cannoni sparano contro le posizioni dei fedayn al di là del fiume Litani, da dove i guerriglieri scaraventano razzi Katiuscia — che hanno una gittata di circa 22 chilometri — sulle posizioni conquistate dagli israeliani, e sullo stesso territorio di Israele. Gli aerei colpiscono Nabatiya, dietro il monte Hermon, roccaforte di Al Fatah. (E al tempo stesso, la marina lancia missili contro Ras El Ein, a Sud di Tiro). Con la resa («inopinata») degli otto villaggi sciiti, la cosiddetta fascia di sicurezza si è approfondita; ora gli israeliani si trovano oltre i quindici chilometri prefissati, anche perché un importante nodo stradale a ridosso del Litani è stato conquistato. Sia Weizman che Gur hanno più volte affermato come le truppe israeliane non avrebbero varcato la fascia di sicurezza. Adesso non si parla più di fascia di sicurezza... « La guerra è mobile come la donna », risponde un ufficiale. « A noi non interessa comunque l'aspetto politico del problema, siamo qui per fare il nostro dovere, che è quello di garantire la vita degli israeliani ». Ma per garantirla si dovrebbero far fuori tutti i fedayn che si trovano nel Libano. L'Onu afferma che oltre ai guerriglieri sono morti, in quel disgraziato Paese, almeno settecento civili, che ci sono centinaia e centinaia di feriti tra la popolazione. I fedayn caduti nella Fatahland non superano i trecento... Nessuna risposta. Torniamo indietro. Spesso dobbiamo pericolosamente buttarci sull'orlo delle stradine, veri e propri tratturi, per lasciare il passo ai poderosi mezzi militari che procedono in senso inverso carichi di uomini, di materiali e di viveri. Facciamo tappa a Ramech, villaggio cristiano-maronita a pochi chilometri dalla frontiera, la cosiddetta Good Fence (la frontiera buona). Qua, ormai da tempo, gli abitanti vivono in dimestichezza con gl'israeliani, vanno a lavorare in Israele, sono riforniti di tutto, anche di benzina, dalla vicina Biranit. Il fragore delle esplosioni non turba le donne che sferruzzano quiete sull'aia. I bambini offrono in vendita sigarette americane, giocano a pallacanestro. Il parroco del villaggio passeggia sotto il portico della sua casa. Ci fa segno di avvicinarci. E' un uomo vigoroso, con gli occhi nerissimi, la barba brizzolata. Porta un basco in testa, sorride con denti perfetti. «Accettate un caffè». Grazie. Il salotto buono è zeppo di poltrone e divani, ci sono molti tappeti, lampadario con qualche pretesa di eleganza, lavori a piccolo punto appesi alle pareti. La perpetua ci porta il caffè e dolcetti alla mandorla. Buoni, li avete fatti in casa? Con un sorriso imbarazzato, padre Elia Barakat risponde: «No, sono israeliani, vengono dall'altra parte». E adesso, padre? «Adesso aspettiamo la pace. Abbiamo sofferto durante quasi tre anni, tanti dei nostri sono morti perché qui son caduti obici a centinaia». Sparati dagl'israeliani? «No, no, dagli altri». Gli "altri" sono i musulmani, i fedayn? Silenzio, solo un'alzata di spalle. Se doveste scegliere tra i palestinesi e gli israeliani? Il prete lascia raffreddare la domanda, poi, fulminandoci con gli occhi: «Io sono un arabo libanese», risponde. A pochi chilometri dalla Good Feuce ce ne stiamo perplessi davanti a un bivio, non ricordando più la strada da seguire. Ma poi, su di un muretto a secco, scopriamo una scritta in arabo e in inglese con tanto di freccia: «Israel». Siamo vicini al posto di frontiera di Ros Hanikra, sul versante occidentale del confine tra Israele e Libano. Ottanta chilometri circa di strada a tornanti ci dividono da Metulla, a Ovest, dov'è un altro varco nella Good Fence. Metulla è come un dito ficcato in territorio libanese. Nove chilometri portano a Marjayoun; qui le famiglie cristiane da più di due anni hanno vissuto infognate nelle loro case in rovina. Ora non fanno che sortire dalle pietre abitate, invadendo la strada bitumata. Donne, bambini, applaudono i vincitori, corrono appresso ai carri armati, ai camion Un vecchio barbuto ci ferma imperioso. Nel suo francese gutturale parla «dei diritti dell'uomo che Carter sbandiera tanto ma non fa rispettare. Ci volevano gli israeliani per riportarci un po' di pace, per restituirci il diritto alla vita. E' il colmo dell'assurdo!». A Marjayoun come a Klea, a Khyam, non fanno che ripeterci: «I cristiani e le forze israeliane hanno lo stesso destino. La pace». Marjayoun, Klea e Khyam sono villaggi fantasma, popolati di donne in lutto, come se ne vedono nel nostro profondo Sud. «I musulmani ci hanno terrorizzati con i loro katiuscia. Non ci sono rimasti che gli occhi per piangere. I nostri figli, da due anni, non sono potuti andare a scuola. Ogni traccia di vita civile è scomparsa. Ma ora, vivaddio, l'inferno è finito, s'è compiuto il miracolo!». A parlare così è il maggiore Haddad, comandante delle forze cristiane della zona. Un uomo asciutto sui 40 anni, baffetti castani, maglione a giro collo, una divìsa verde oliva, un berretto di fatica in testa. Qual è il miracolo che si sarebbe compiuto, secondo il maggiore Haddad? «L'arrivo dell'armata israeliana ». Ma gli israeliani prima o poi dovranno andarsene, presto verranno le truppe dell'Onu... «Vedremo. A parer mio non dovranno muoversi, gli israeliani, finché gli stranieri non avranno sgomberato tutto il libano ». Quali stranieri? «I palestinesi, i siriani. Quando se ne saranno andati, solo allora, il Sud Libano dovrà essere controllato dall'esercito libanese e dalle forze di noi cristiani». Magari con l'aiuto di Israele? «Perché no?». Nella piazza di Marjayoun c'è un mercatino all'aperto, pieno di roba israeliana. I soliti ragazzini offrono con insistenza sigarette americane «a buon prezzo». Alzano la mano con l'indice e il medio aperti in segno di vittoria. Hanno gli occhi inchiostrati di stanchezza, sguardi adulti. Somigliano terribilmente a Mahmud Fayad, il fedayn superstite dell'attacco del «sabato nero», che domenica è stato portato innanzi ai giornalisti, al Beit Shkolov di Tel Aviv, per una conferenza stampa. Questo ragazzo di 18 anni, che ha assassinato, come lui stesso ha ammesso, donne e bambini israeliani «perché dovevamo portare a termine la missione che ci era stata affidata», ha risposto alle domande dei giornalisti con lampi d'odio nei suoi occhi adolescenti, rassegnazione nella voce. Pietà per i nostri morti innocenti, invocavano le donne cristiane di Klea, come sgranando una agghiacciante litania. «Pietà per i nostri morti innocenti e per i vivi», dicevano i rabbini ai funerali delle vittime del «sabato nero». Igor Man \ \ Libano meridionale. In fuga, con poche cose, mentre incalzano i combattimenti fra fedayn e truppe israeliane (Ap

Persone citate: Abbas Fawas, Barbisio, Donne, Elia Barakat, Fatah, Haddad, Mahmud Fayad, Weizman