La lunga notte in questura di Francesco Santini

La lunga notte in questura Il cronista vive ore di tensione con gli uomini della polizia La lunga notte in questura Il "fermo" di un sospettato mobilita i giornalisti - Forse una traccia dei rapitori ■ II questore dichiara: "Lavoriamo, non possiamo parlare" - E arrivano e partono le auto a sirene spiegate ( Dal nostro inviato speciale) Roma, 18 marzo. Le automobili eriveliate sono 11, nel cortile della questura, in via San Vitale, a ridosso dei grandi palazzi della Roma umbertina che in questa notte di primavera non dorme, trafitta dall'urlo delle sirene. Dal corridoio della sala stampa un operatore inquadra, con la «132» del presidente democristiano, l'«Alfetta» della sua scorta. Squarcia, nel fascio di luce, uno spazio animato, zeppo di poliziotti stanchissimi, di auto che «imballano» il motore per una partenza veloce. Accorre un cronista, altri lo seguono, in questa notte piena di fumo, di mozziconi schiacciati, per due notizie difficili: un primo «fermo» nel rapimento di Aldo Moro; una foto, con un primo messaggio delle Brigate rosse, arrivati ohi sa dove, nella Roma dei ministeri. Di Gianfranco Moreno, alle dieci di sera, si sa poco. La saila cronisti di San Vitale si riempie e Alvaro Benedetti che è lì da vent'anni già teme un nuovo Valpreda. Dall'ufficio stampa, che è al primo piamo, un funzionario coi baffi respinge ogni domanda. «Fate voi, io non parlo», ripete monotono, «per il questore, nulla da fare, è impegnato». Mezz'ora d'incertezza con i telefoni che impazziscono. Si vuole sapere chi è l'uomo uscito dalla questura in manette. Qualcuno tenta di risalire alla fonte. Il primo flash deìi'Ansa è delle 21,13. Il collega dell'agenzia è assalito; racconta, nell'imbarazzo, che la notizia è uscita dall'ufficio matricola del carcere di Regina Coeli. Non è creduto. Trenta cronisti chiedono del questore. Ora sono una quarantina. Uno, più giovane, di un settimanale, riesce a raggiungerlo per telefono. Nella stanza che si fa muta, un piccolo apparecchio amplifica la voce di Emanuele De Francesco, questore a Roma da pochi mesi, da quando, nella polemica per la morte di Giorgiana Masi, Migliorini ha dovuto lasciare la scrivania. «Questore, una conferma, tre parole, nulla di più». C'è una pausa, l'alto funzionario non risponde. Poi attacca: «Ma quali tre parole, se dicessi tre parole dovrebbero essere cattive, stiamo lavorando, lasciateci lavorare». Poi ammette: «Un fermo, soltanto un fermo, chiamate il ministero». Il cronista giovane non si accontenta: «Questore, c'è il rischio di fabbricare un mostro». Emanuele De Francesco sembra riflettere nel silenzio; annuncia: «Scendo, prima di dare notizie aspettate». Eccolo. Si spalanca la porta, pallido, sfinito negli occhi cerchiati, arriva con un funzionario di gabinetto. «Abbiate la cortesia di lasciarci lavorare. Le indagini stanno procedendo da ieri mattina ». Non ammette che il fermato si chiami Moreno. «Posso rispondere soltanto di quello che fa il mio ufficio — dichiara — , certo, ci sono dei fermi». Ridimensiona. Lo assaltano: «Dei fermi, ha detto dei fermi, quanti?». Emanuele De Francesco non risponde. E' incalzato. «Non posso fare nomi, lasciatemi andare». «Non abbiamo chiesto nomi basta conoscere il numero dei fermati». «Non faccio numeri, nemmeno se me li tirate fuori con le molle, dovrà valutare l'autorità giudiziaria». «C'è ottimismo?» domandano dal fondo. Il questore allarga le braccia: «Buona volontà, molta buona volontà». Passano minuti lunghissimi. Di Gianfranco Moreno si hanno i contorni. 32 anni, robusto, indossava una maglia verde sotto una giacca a quadri. Pettinatura all'indietro, un ciuffo che sale. Poi, nella notte, ancora brandelli. Impiegato di banca, vive a Roma. C'è adesso chi dice che in qualche modo abbia avuto un contatto con il presidente Moro.. Raccontano che in passato sia stato beneficato dalla famiglia. Si viene a sapere che l'ha fermato l'ufficio poli tico il giorno del rapimento, la sera del 16. L'hanno interrogato in continuo. Ha lasciato San Vitale che erano le 20 appena suonate per andare a Regina Coeli. Nella sala cronisti, per un momento, ci si dimentica di Gianfranco Moreno. Due «Alfette» lasciano l'edificio. Gli agenti sono armati di mitra, l'autista ha un giubbotto antiproiettile. I fotografi s'accodano. Nella Roma di mezzanotte l'inseguimento è difficile. Le auto si perdono in direzione della Nomentana. Adesso via Nazionale s'è fatta buia. Anche l'ultimo bar, che ha le vetrine dinanzi alla galleria d'arte moderna, abbassa le serrande. Mario, il ragazzetto che porta il caffè in questura, inforca il motorino. S'allontana nella discesa per piazza Venezia. Più su, da Palazzo Del Drago, un gruppetto di missini in giacchetta esce su via Quattro Fontane. Gettano a terra, a grosse manciate nella strada deserta, pacchi di volantini. Chiedono la nomina di un militare agli Interni, la pena di morte, leggi speciali contro il terrorismo. Passano le prime automobili. I manifestini si disperdono al vento. A quest'ora la sala stampa si riempie di luce. Dai giornali del pomeriggio arrivano le prime chiamate. Ancora Gianfranco Moreno ma, ciò che più preme, è questo messaggio delle Brigate rosse che qualcuno dice sia arrivato ai politici della capitale. Nell'ufficio di notturna il dottor Filippi riscalda il caffè su un fornello elettrico. E' interrotto da una chiamata: una rapina al raccordo anulare. C'è un camionista in difficoltà. Risponde con rapide disposizioni. Riaggancia, il suo turno è finito. «Una notte tranquilla» dice, nel cortile che si fa chiaro. La «scientifica» è tornata a trafficare sulla «128» dei terroristi. Al primo piano le finestre dell'ufficio politico restano illuminate nell'alba che tinge di rosa la giornata romana. Francesco Santini Roma. Benigno Zaccagnini ascolta alla radio le ultime notizie sul rapimento di Moro

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