I "professionisti" del terrore di Franco Mimmi

I "professionisti" del terrore Dai "Montoneros„ sudamericani alla banda tedesca Baader-Meinhof I "professionisti" del terrore Roma, 17 marzo. Sono professionisti, che nulla lasciano al caso. Il terrorismo è una «scienza», con i suoi testi che vengono studiati a tavolino prima di passare all'attuazione, con le sue esperienze fallite o riuscite che si trasformano in nuovi testi, e via via la «scienza» si perfeziona, gli errori sono sempre meno, gli «scienziati» sono sempre meglio preparati, il margine dell'imponderabile si fa sempre più ristretto. Solo una scienza contraria altrettanto avanzata può combatterli, smentire questi professionals. La loro storia comincia in Uruguay, Anni Sessanta. Si chiamano Tupamaros e scatenano una guerra a base di attentati contro un regime borghese che faceva definire il paese «la Svizzera del SudaI merica». L'esito è la destabij lizzazione, la reazione milita! re, il colpo di Stato da destra. Oggi l'Uruguay è uno dei paesi più «duri» del Sudamerica. In un continente tribolato come quello latino-americano l'esempio dilaga: i Montoneros argentini ricalcano i modelli uruguaiani nella loro battaglia contro i regimi più o meno dittatoriali che si alternano tra il primo e il secondo Perón e poi fino a oggi. Ma neppure l'Europa è esente da questa guerra il cui fronte è ovunque e in nessun luogo. I baschi dell'Età combattono il regime franchista a colpi di dinamite e a raffiche di mitra, e nel '69 riesplode nell'Irlanda del Nord la secolare e micidiale diatriba tra cattolici e protestanti, con migliaia di morti che portano ! lutto non solo nell'Ulster ma | anche in Inghilterra, dove i ! guerriglieri dell'Ira spingono i i loro attentati. Esplosivi, per i lo più, ma anche raffiche di i mitra, e i rapimenti che co| stellavano le azioni Tupamaros e Montoneros e dell'Età sono qui meno frequenti ma conoscono anch'essi i loro momenti di ribalta. Sono tutti professionisti del terrore, e ad essi si mescolano, in un crescendo di violenza e di confusione ideologica, gli esperti dei regimi che accettano quale arma politica anche il terrorismo stesso che ufficialmente combattono. I servizi segreti si infiltrano nelle trame terroristiche per destabilizzare governi I avversari. Non è possibile tracciare divisioni morali, di «buoni» e «cattivi». Il mondo non è una categoria etica, e gli esempi sono rintracciabili ovunque: dalle operazioni Cia a quelle Kgb, dalle infiltrazioi ni compiute dai servizi segre' ti cecoslovacchi e tedeschi a quelle che anche in Italia certi stentati processi cercano di portare alla luce. E' di pochi giorni fa la denuncia di esuli argentini: vi è un'internazionale del crimine politico cui aderiscono le dittature cilena e argentina, brasiliana e uruguayana, e quest'organizzazione sta disseminando i propri agenti anche in Italia e in tutta Europa. Tra le infinite ipotesi possibili, quella di azioni volute da governi assolutistici per fiaccare Stati avversi alla loro politica non è delle più improbabili. Per chi compie una manovra simile, lo scopo è duplice: annullare l'opposizione e giustificare la propria stessa esistenza. In questo quadro del mondo del terrorismo l'immagine della banda Baader-Meinhof sta in primo piano, e nel caso del rapimento di Aldo Moro si fa ricordare più di ogni altro gruppo. Nel solo 1977 vi sono tre episodi le cui affinità con quelli italiani, ma soprattutto con quello di ieri, si fanno via via maggiori e più evidenti. Si comincia il 7 aprile: il procuratore generale tedesco, Siegfried Buback, è in auto con due uomini di scorta, a Karlsruhe, quando a un semaforo viene avvicinato da due giovani in motocicletta. Sul sellino posteriore è seduta una donna. Estrae all'improvviso una maschinenpistole e spara a raffica. Colpito alla gola, Buback muore all'istante, e così anche i due uomini della scorta. Il 30 luglio tocca a Juergen Ponto, presidente della Dresdner Bank. Viene affrontato, mentre esce di casa, da alcuni uomini la cui intenzione evidente è di sequestrarlo, come dimostra un furgone con le tendine che essi abbandoneranno dopo avere risposto alla reazione del banchiere, che cerca di divincolarsi, con cinque colpi mortali dì pistola. Viene il 5 settembre. I terroristi della Baader-Meinhof rapiscono Hanns Martin Schieyer, presidente della Lega dell'industria, l'omologo tedesco della Confindustria. L'azione con la quale il presidente degli industriali viene sequestrato presenta analogie impressionanti con il rapimento di Aldo Moro. Schieyer è in automobile, a Colonia; siede sul sedile posteriore, un agente di polizia è alla guida. Li segue a pochi metri un'altra automobile, nella quale vi sono tre agenti. Le due vetture entrano in una strada stretta, dove una «Mercedes» e una carrozzella per bambini bloccano il passaggio e le costringono a fermarsi. Cinque persone a piedi entrano correndo in scena, estraggono dalla carrozzella le armi automatiche che vi erano nascoste. Tre dei terroristi aprono immediatamente il fuoco, con incredibile precisione, contro l'autista della prima vettura e contro i tre agenti della seconda. Gli altri due terroristi spalancano la portiera e obbligano Schieyer a scendere, lo trascinano verso un furgoncino, partono immediatamente. Schieyer e Moro: due azioni quasi identiche. Analogie agghiaccianti, eppure è appena l'inizio dell'orrore. Perché la domanda che sorge spontanea, ripercorrendo i fatti successivi a quel 5 settembre, è: dove finiranno le analogie? Il giorno successivo il rapimento di Schieyer i terroristi avanzarono le loro richieste: la liberazione degli appartenenti alla Baader-Meinhof rinchiusi nel carcere di Stammheim. Il governo tedesco finge una trattativa in realtà impossibile. Il 13 ottobre, a oltre 40 giorni dal rapimento, quattro terroristi palestinesi dirottano un jet della Lufthansa. Il 14 chiedono anch'essi la liberazione della banda Baader-Meinhof, o uccideranno i passeggeri, e i loro complici sopprimeranno Schieyer nel nascondiglio dove è tenuto prigioniero. Il 15 giungono alle autorità tedesche due messaggi: uno è l'ultimatum dei dirottatori, rin¬ chiusi con i loro ostaggi sulla pista dell'aeroporto di Dubai. L'altro è una videocassetta dalla quale l'immagine di Schieyer prigioniero lancia la sua richiesta di aiuto. Il 16 l'aereo decolla da Dubai, scende prima a Aden e poi a Mogadiscio. Riprendono le trattative, ma a mezzanotte in punto le «teste di cuoio» tedesche, reparti appositamente addestrati per simili azioni, assaltano l'aereo liberando i passeggeri e uccidendo tre dei quattro terroristi. Il 18 nel carcere di Stammheim vengono trovati morti Baader, la Ensslin e Raspe. Suicidio, dicono le autorità tedesche. Sul fatto fioriscono ovviamente le ipotesi più diverse. Il 19, alle ore 21, alla periferia della cittadina alsaziana di Mulhouse, nel bagagliaio di im'auto viene ritrovato il corpo di Schieyer. Vi è, tra questi casi e quello che l'Italia sta vivendo, un'altra analogia, che è bene ricordare: tre giorni prima di essere ucciso il procuratore generale Buback mise in guardia l'opinione pubblica contro «una piccola banda di terroristi che non ha alcun rispetto per la vita umana e che potrebbe colpire in qualsiasi momento». E aggiunse che era dovere della popolazione capire e collaborare, perché il terrorismo è una piaga che infetta tutta la nazione e tutti devono combatterla per guarirla. E' lo stesso appello che hanno lanciato ieri Andreotti, Cossiga e Lama: è tutto il Paese che deve reagire. Buback non fu ascoltato: questa analogia non deve aggiungersi al triste elenco. Franco Mimmi