Aldo Moro, lo statista degli equilibri delicati di Stefano Reggiani

Aldo Moro, lo statista degli equilibri delicati Chi è il presidente della democrazia cristiana Aldo Moro, lo statista degli equilibri delicati (Dal nostro inviato speciale) Roma, 16 marzo. Cauto ed equilibrato, reticente ed involuto, contraddittorio, pessimista, ottimista, indispensabile al partito. Il ritratto di Moro, nelle parole dei commentatori, degli amici e degli avversari, si sfalda e si ricompone ciclicamente; non c'è politico che abbia suscitato più attenzione di lui, anche quando s'è messo in disparte, anche quando, frequentemente, ha taciuto, mandando tuttavia, attraverso il silenzio, segnali e messaggi. «Che fa Moro? Che dice?» è stata spesso in questi anni la domanda chiave, insopportabile per gli impazienti, inevitabile per gli uomini di partito. Appuntamento fisso della scena italiana, la sua figura è come il suo carattere, un momento evanescente (gli occhi socchiusi, la pronuncia lenta e impacciata dalla malattia come si vide in una delle ultime apparizioni elettorali in tv), un attimo dopo ferma, inchiodata all'oratoria puntigliosa dei congressi e alla macchia bianca dei capelli, come a una prestabilita originalità. Ha invitato a grandi fedi, eccitanti perché incerte e difficili; ha suscitato avversioni. Nel film «Todo modo» il regista Petri lo mise al centro di una sanguinosa allegoria del potere, allora sarcastica, adesso agghiacciante. Ha scritto il suo biografo più scrupoloso, il comunista Aniello Coppola: «Moro si è affermato come la miglior testa pensante del suo partito». E lo storico Giampiero Carocci: «E' la più eminente figura di statista della de, dopo o insieme a De Gasperi». Eppure, quando si presentò alla prima assemblea cittadina della de a Bari nel 1944 i notabili non vollero dargli la tessera, non si fidavano. In quell'anno Moro era un professorino ventottenne di filosofia del diritto in cerca di uno spazio politico. Nato nel 1916 a Maglie di Lecce, figlio di un direttore didattico e di un'insegnante elementare, laureato a 21 anni, professore a 24, era stato presidente degli universitari cattolici e dunque in grande dimestichezza con la gerarchia ecclesiastica, ma era stato anche di quegli ingegni antifascisti formatisi nei Littoriali, uno che non aveva potuto conoscere l'amaro del¬ l'emarginazione e delle polemiche tra «popolari» nei vecchi retrobottega. Il maggior notabile democristiano di Bari, un farmacista di lunga militanza nel partito popolare non lo volle: tra l'altro non capiva con chiarezza (fu il primo) gli obiettivi del giovane Moro, gli rimproverava posizioni troppo disimpegnate su un foglio del dopoguerra, «La Rassegna», lo accusava di non allineamento con le scelte del Cln. In realtà, secondo i più acuti osservatori, nelle prime prose di Moro (sulla «Rassegna», e, prima, sulla più ortodossa «Azione fucina») era solo presente una forte vocazione alla «precettistica morale». Come dire che Moro era a un bivio tra il diventare un teorico professorale ed ecclesiale, un suggeritore senza vincoli e, in qualche modo, un uomo d'azione, nell'impegno politico diretto. A 32 anni si capisce quale sarà la sua via, perché diventa deputato e sottosegretario; ma una parte della contraddizione iniziale non lo abbandonerà mai, molti discorsi ai congressi per le forme e i modi sono apparsi anche saggi di «precettistica morale», volti alla rassegnazione che non si rassegna, allo scoraggiamento che non ha troppe debolezze. La carriera di Moro sta in una circospetta marcia verso le forze di sinistra e in una capacità di adattamenti graduali alle circostanze che hanno segnato, fino a questo governo Andreotti, tutta la vicenda del Paese. Per alcuni, abbiamo assistito ad un rinnovato esempio di giolittismo. Moro era parte del gruppo doroteo, cioè del fronte più moderato della de: il suo inizio fu di diventare, per spostamenti leggeri, ma precisi, moroteo, cioè inventore di se stesso e della sua, sempre esigua, corrente. Nel '62 il congresso di Napoli segna l'apertura ai socialisti, finisce il periodo delle convergenze parallele, comincia il centrosinistra. Prudente, renitente, vorrebbe fermare con la sua formula un attimo della storia italiana («Abbiamo concepito un grande disegno per il qua le una netta maggioranza dei popolo italiano si sarebbe ritrovata nel quadro della collaborazione tra cattolici e socialisti»); ma sta proprio a cogliere i mutamenti. Gli storici della de gli attribuiscono di aver capito per primo, tra i suoi, i segni del '68 e dei movimenti giovanili («Tempi nuovi si annunciano ed avan zano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d'ombra, condizioni di insuf fidente dignità e di insufficiente potere non siano più a lungo tollerabili...»). Gli osservatori degli altri partiti gli danno il merito di avere accettato la fine del centrosinistra e la nuova linea uscita dalle elezioni. La marcia di Moro verso le forze di sinistra passa dalla chiusura anticomunista alla strategia dell'attenzione. All'ultimo congresso della de tiene un discorso che la concentrazione rende quasi privo di sfumature: «E' difficile dire che cosa accadrà. L'avvenire non è più in parte nelle nostre mani. Ed è doveroso indicare le incertezze e le incognite della situazione senza abbandonarsi al furore, senza puntare su una rivincita che non sia quella del normale procedere della vita democratica... Due momenti della nostra storia sono passati e si apre un capitolo nuovo. E' cominciata una terza, difficile fase della nostra esperienza». Dicevano negli ambienti politici romani in questi giorni: Moro è l'unico interlocutore di Berlinguer, è l'unico che possa far firmare uno stesso documento ai moderati e ai comunisti. D'improvviso si scoprono tra le sue frasi, dentro i discorsi fitti e magari noiosi, affermazioni chiarissime che non hanno bisogno di interpreti. «Se la de deve essere ricostituita mi auguro che essa rinasca libera dall'arroganza del potere». Lo spostamento elettorale ha segnato un moto «che anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione veramente nuova alla vita sociale e politica del Paese». Stefano Reggiani Roma. Aldo Moro con Oreste Leonardi ucciso nell'agguato

Luoghi citati: Bari, Napoli, Roma