La vita e la morte d'un "nemico del popolo" di Roy Medvedev

La vita e la morte d'un "nemico del popolo" QUARANTANNI FA VENIVA FUCILATO NIKOLAI IVANOVICH BUCHARIN La vita e la morte d'un "nemico del popolo" Nikolai Bucharin stava seduto su un fagotto in un angolo della sala di aspetto dell'aeroporto di Mosca, il viso coperto dalle mani per non essere riconosciuto. Tornava dalle montagne del Pamir. Aveva interrotto la vacanza, in pieno agosto 1936, appena appreso dai giornali che Zinoviev e Kamenev erano nuovamente sotto processo. Negli interrogatori, i due dirigenti della sconfitta « opposizione di sinistra » a Stalin coinvolgevano anche Bucharin nelle gravi accuse a loro rivolte. Temeva di essere arrestato. La giovane moglie, Anna, e l'autista gli si avvicinarono. « Salute, Nikolai. Andiamo a casa! ». « Dove? ». « A casa, al Cremlino... ». « Ma ci fanno entrare, al Cremlino? ». « Per ora viviamo ancora lì ». « Però copritemi. Non voglio che nessuno mi veda ». A casa, Bucharin telefonò subito a Stalin. Ma non lo trovò. Concluso il processo e fucilati Zinoviev e Kamenev era partito per Soci « a riposare ». Bucharin gli scrisse una lettera in cui respingeva ogni sospetto su di lui. Cominciava con le parole: « Caro Koba... », quindi si chiuse in casa. Era l'appartamento nel quale Stalin aveva vissuto con la moglie, Nadiezhda Alliluyeva. Dopo il suicidio di lei gli aveva chiesto di scambiarlo con il suo. Allora i rapporti erano buoni. Stalin conosceva bene anche la terza sposa di Bucharin, Anna Michailovna Larina, e doveva provare una certa attrazione per la sua giovanissima e straordinaria bellezza. « Anche in questo mi hai battuto », disse a Nikolai quando seppe del matrimonio. In quegli anni, sia le nozze sia i divorzi erano facili e frequenti. In genere i bolscevichi non ritenevano nemmeno necessario registrarli; la gente si limitava a convivere. Quando si dividevano, se c'erano figli restavano con la madre; beni da spartire non ne avevano, dato che i bolscevichi di quei tempi non possedevano quasi nulla. Bucharin ripeteva alla moglie la sua innocenza. Ella non aveva dubbi. Credeva poco anche alla colpevolezza di Zinoviev e Kamenev. « Ma come puoi pensare che siano stati loro ad ut- cidere Kirov... », gli rispose una volta. « Ma con le loro deposizioni stanno uccidendo anche me », replicò lui. Era molto scosso per il suicidio di Tomskij. Pensava che togliendosi la vita li avesse rovinati tutti, perché in pratica era come se avesse riconosciuto che qualche colpa gli « ex destri » l'avevano. Ma più tardi, incontrando Rjkov ad un plenum del Comitato centrale, gli confidò: «Tomskij è stato il più intelligente di tutti noi ». Non sapeva ancora che intanto il procuratore generale Vishinskij aveva avviato un'istruttoria su di lui e su Rjkov. Tomskij, Radek e gli altri nominati nel corso del processo per « cospirazione controrivoluzionaria ». Quest'indagine si risolse poi con un « non luogo a procedere ». Stalin trascorse nella dacia di Soci quasi l'intero settembre. Il 25, egli e Zhdanov inviarono a Mosca un telegramma indirizzato a Kaganovich, Molotov e gli altri membri del Politbjuro con l'ordine di esonerare lagoda dall'incarico di ministro dell'Interno e di nominare in sua vece Yezhov, un funzionario del partito relativamente giovane e molto ambizioso. Il cambiamento non venne interpretato, sulle prime, come un prologo all'inasprirsi del terrore. Pochi conoscevano che nel telegramma Stalin e Zhdanov motivavano l'allontanamento di lagoda con « il ritardo di quattro anni con cui era stato smascherato il blocco trotzkozinovievista ». Già nell'autunno vennero arrestati molti ex trotzkisti, come Radek, Sokolnikov, Serebriakov ed altri. Il piano di queste repressioni ' non era dell'Nkvd, bensì di Stalin. Yezhov eseguiva le sue direttive ciecamente, come uno schiavo. Il « successo » del processo contro Zinoviev e Kamenev indusse Stalin a far svolgere il successivo più « apertamente ». Furono invitati non soltanto rappresentanti della « opinione pubblica » sovietica, opportunamente selezionati; ma anche giornalisti stranieri e alcuni esponenti dell'opinione pubblica occidentale. Venne anche riaperta l'istruttoria a carico di Bucharin e Rjkov. E a loro, come a fitti gli altri membri del Comitato centrale, Stalin cominciò a far pervenire copia delle deposizioni degli anestati. Poterono in tal modo vedere che sempre più frequentemente essi apparivano nellé"« confessioni » degli imputati come complici tra i principali negli atti di terrorismo e di sabotaggio nel!' Unione Sovietica. Sconvolto, Bucharin decise di scrivere a tutti gli amici di un tempo: Oigionikidze, Kalinin, Voroscilov. Solo quest'ultimo gli rispose: « Vi prego, compagno Bucharin. di non rivolgervi più a me per nessun motivo ». Per venti anni si erano dati del tu. Scrisse di nuovo a Stalin. Ancora cominciò con « Caro Koba... ». Insieme avevano trascorso lunghi periodi, si erano divertiti. Avevano cantato canzoni — non sempre morigerate —, qualche volta si erano finanche battuti nella lotta e Bucharin, piccolo ma robusto, aveva invariabilmente inchiodato il compagno spalle a terra. « Koba » si rialzava allora dall'erba scherzando e ridendo, di nuovo pronto al combattimento. Ma neanche questa volta rispose, cercando nondimeno di fargli mantenere un filo di speranza. Secondo la testimonianza della moglie, il 7 novembre 1936, diciannovesimo anniversario della rivoluzione, Bucharin volle recarsi sulla Piazza Rossa, sistemandosi in una tribuna laterale. Dal balcone sul Mausoleo di Lenin dov'era insieme con i maggiori dirigenti del partito, Stalin lo vide. Mandò una guardia con un messaggio e vedendola avvicinarsi la signora Bucharin pensò che venisse ad ingiungergli di allontanarsi. « Compagno Bucharin, il compagno Stalin vuole che voi sappiate che non siete ul posto che vi compete e vi chiede di sali¬ re su' Mausoleo », disse invece il miliziano. Ma qualche giorno dopo, non alla Lubianka, sede dell'Nkvd, bensì al Cremlino, ebbero inizio una serie di confronti tra Bucharin e « trotzkisti » ex allievi della cosiddetta « scuola di Bucharin » arrestati. Una volI ta, rientrando in casa, Buchaj riti prese la sua pistola. Su una targhetta dorata sotto l'impugnatura erano incise le parole: « Al condottiero (vozhd) della rivoluzione proletaria, da K. Voroscilov ». Aveva deciso di suicidarsi. Disse addio alla moglie e si rinchiuse nello studio. Ci restò a lungo, con l'arma in mano; ma non riuscì a spararsi. La stessa scena si ripetè varie volte. Alla fine del dicembre 1936, gli piombò in casa un ; gruppo di agenti dell'Nkvd. Staj vano per cominciare una per; quisizionc, quando squillò il telefono. Bucharin restava pur sempre un membro del Comitato centrale, perciò l'ufficiale che dirigeva il gruppo gli permise di rispondere, ponendosi anche lui ad ascoltare. Entrambi riconobbero immediatamente la voce di Stalin: « Allora, come va, Nikolai? ». Turbato, Bucharin lo informò della situazione. Stalin replicò semplicemente: « E tu mandali tutti al diavolo ». I poliziotti salutarono e uscirono. Non era finito il dicembre che il plenum del Comitato centrale discusse per la prima volta le nuove accuse a Bucharin e Rjkov. Tutti gli intervenuti sollecitarono il loro arresto immediato. Stalin prese per ultimo la parola e tra la sorpresa generale dichiarò che non bisognava fare le cose troppo in fretta. Bucharin continuò a ricevere le copie dell'istruttoria in corso; ma non andava più alle Izvestija, di cui formalmente era sempre direttore. Vi tornò, su richiesta del Comitato centrale, soltanto in una occasione, per ricevere lo scrittore occidentale Leon Eeuchtwanger, che in visita a Mosca voleva incontrarlo. Lo scrittore sapeva delle accuse rivolte a Bucharin e trovarlo nel suo ufficio al giornale doveva servire a dimostrargli la « obiettività » della giustizia sovietica. Bucharin svolse bene la sua parte, si manteneva leale con Stalin così come si era prefisso dopo essere stato battuto politicamente. L'arresto di Radek preparava però il suo. Roy Medvedev (Continua)

Luoghi citati: Mosca, Unione Sovietica