Il laboratorio Piemonte di Lorenzo Mondo

Il laboratorio Piemonte REGIONE CON VOCAZIONE DIDATTICA Il laboratorio Piemonte La nascita degli organismi regionali, che ha sancito con tanto ritardo la diversità e l'originalità delle regioni italiane, porta inevitabilmente a riflettere e a interrogarsi sul passato recente, su una storia che, pur intrecciandosi e identificandosi spesso con quella del Paese, manifesta più specifiche connotazioni. Contribuendo a una ripresa delle culture locali proprio quando esse sembrerebbero irrimediabilmente travolte o esaurite dalle migrazioni interne, da questo impietoso cemento unitario. E' in questa situazione che prende avvio, a opera delle edizioni Einaudi, una storia delle regioni dall'Unità a oggi, affidata a diversi specialisti ed esemplificata da un primo volume di Valerio Castronovo, II Piemonte (800 pagine, 35.000 lire). Un libro fatto apposta per smuovere affinità e complicità regionali, per coinvolgere con sufficiente indulgenza anche chi non esercita professione di storico. Studioso della società industriale, biografo di Giovanni Agnelli, sollecitatore paziente di fonti giornalistiche, Castronovo aveva la via tracciata: la sua storia del Piemonte postunitario si sarebbe basata in modo preminente sui fatti economici, investigati con fiducia pragmatica senza trascurare una congerie di testimonianze parcellari e marginali, affidate a giornali periferici e a tesi di laurea. Il lavoro di ricerca e il risultato sono assai notevoli, brillantemente superato il rischio di restare prigioniero della grande massa di notizie raccolte: dove si parla dell'auto quotata in Borsa, di filatura e tessitura, ma anche di bachi da seta e di bovini, di risicultura e di fillossera. Dal mortificato isolamento politico di fine secolo, che si accompagna al declino economico, è la storia di una ripresa dovuta principalmente allo sviluppo industriale. La crescita della città e della fabbrica è vocazione e persuasione del liberalismo riformatore piemontese, al quale aderiscono le classi imprenditoriali più dinamiche, non meno del « socialismo dei professori », convinto di inevitabili, positivistici sbocchi. Eppure, anche quando è più innovatore, il Piemonte non sembra sfuggire del tutto alla dinamica della « fedeltà ». La svolta giolittiana, che tiene dietro ai propositi bismarckiani di Crispi e alle velleità reazionarie dei « governi della scia¬ bola », reagisce anche alla prospettiva di fare del Piemonte la cerniera fra Europa e Mediterraneo, tende « a mediare e riprodurre i modelli di organizzazione industriale e urbana dei Paesi più avanzati d'Europa »: riannodandosi a una parte del continente con la quale l'economia dello Stato sabaudo si sentiva da secoli integrata. Molti sono i capitoli avvincenti di questa Storia, pur cosi prudentemente controllata nelle emozioni e un poco abbandonata nella scrittura. Quelli ad esempio sugli Anni Trenta, che documentano quanto fosse diffìcile in Piemonte l'organizzazione del consenso al regime. Curzio Malaparte che, direttore de La Stampa, non aveva trovato a Torino consistenti adesioni ai propositi antiurbani e antinovecentisti del Selvaggio, riconosceva in un rapporto a Mussolini che nella capitale piemontese « il senso politico è affinato dalla natura, da una lunga tradizione liberale, da una cultura largamente diffusa, e, in quanto alle masse, dalla lunga e abile tradizione socialista... ». Appariva refrattario anche il mondo cattolico, come rivela un resoconto involontariamente umoristico di Augusto Turati: « Duce, la Santa Sindone imperversa; dietro il panno sacro si muove tutta la grande mobilitazione cattolica del Piemonte... ». * ★ Si vedano, poi, i capitoli sulla guerra di liberazione, dove certe forze che si erano dimostrate impermeabili al fascismo, oppongono resistenza alle proposte più progressiste e radicali, al pur impetuoso « vento del Nord ». Senza inutili giri di parole, Castronovo ammette che « la solidarietà fra civili e partigiani nelle campagne fu sempre un obiettivo da raggiungere, o da conservare in condizioni difficili e tormentate... ». Il bilancio d'insieme di Castronovo sembra confermare la complessità di una regione che, neanche sotto il profilo esclusivamente economico, presenta dati univoci. In un secolo l'attività agricola ha lasciato decisamente il passo a quella industriale. E' continuato il movimento delle popolazioni dalle zone montane e collinari verso la pianura, in obbedienza all'antico adagio piemontese: « Loda il monte e tienti al piano ». Ma i piccoli paesi non sono scomparsi. All'inizio degli Anni Settan¬ ta quasi la metà dei comuni della regione non raccoglieva più di mille abitanti, ma ospitava sempre il 7,4 per cento dell'intera popolazione, più di quattro volte la media nazionale. E' quindi diffusa, e resiste, una piccola proprietà contadina, anche se « malferma ». La mobilità non ha modificato sostanzialmente la spartizione fra un Piemonte settentrionale, a prevalente fisionomia industriale, e un Piemonte meridionale, fortemente tributario dell'agricoltura. C'è stato però un arretramento della fascia pedemontana che. con l'industria tessile, fu all'avanguardia della rivoluzione industriale; mentre si sono prese la rivincita alcune plaghe del Cuneese. (Bra e Alba). L'azione centripeta di Torino ha assunto « dimensioni schiaccianti, quasi oppressive » che non trovano riscontro in altre parti d'Italia. Dagli inizi del Novecento il reddito prò capite nella regione si è quintuplicato; ma negli ultimi vent'anni si assiste a un certo rallentamento e assestamento. Comunque la regione continua a produrre beni e servizi in misura molto maggiore di quanto ne consumi e impieghi: ha una produttività superiore del 15 per cento rispetto alla media italiana e raggiunge il 40 per cento nell'area torinese. Con quasi un quinto delle esportazioni italiane, il doppio delle importazioni di cui ha bisogno, il Piemonte è al primo posto nelle relazioni con il Mec, gli Stati Uniti e altri Paesi, confermando così la sua tipica posizione di « frontiera ». Castronovo crede nell'originalità dei rapporti tra cultura, trasformazioni economiche e potere politico, quali si sono espressi in Piemonte nel primo decennio del secolo; ma nega che la società industriale italiana sia nata a Torino « fra i solitari eroi del capitalismo e il laboratorio di economia politica di Cognetti De Martiis e di Einaudi ». Così, gli sviluppi del movimento operaio non datano dall'avvento, tra i proletari torinesi, delle avanguardie comuniste: anche se la teoria gramsciana del « moderno principe » è stata « la più importante e originale espressione di un socialismo di massa e rivoluzionario ». Cosi la rivoluzione liberale di Gobetti, la sua feconda opera di mediazione e creazione di élites, non riuscì a segnare una intera generazione di intellettuali. Pur riconoscendo l'importan¬ za di certi fenomeni culturali e politici, Castronovo sente l'impaccio di certe mitizzazioni. E alle citate esperienze oppone il tenace legittimismo monarchico pronto ad allearsi con il fascismo; l'aggressività di una classe industriale condizionata in parte dalle esigenze della produzione in serie e del taylorismo; il peso infine di una tradizione rurale chiusa entro schemi difensivi elementari. ★ ★ Tralasciando certe generalizzazioni sul versante storico e politico, che si riferiscono soprattutto all'ultimo ventennio e risultano inevitabilmente approssimative, sorge un rammarico: che non si disponga di sufficienti ricerche a carattere antropologico, di adeguati sondaggi dentro la psicologia e i miti collettivi, secondo le proposte mai abbastanza apprezzale delle Amiales francesi. Ne verrebbero fuori indicazioni sulla « lunga durata » della specificità regionale, e forse si correggerebbe il tiro anche nella valutazione del contingente, di una vasta zona culturale e sociale affidata, senza possibilità di appello, all'ambito del regressivo. Per noi continua a essere decisivo, e va spiegato, il fatto che, attraverso un Pavese e un Fenoglio, la letteratura — quest'altra forma di conoscenza — abbia continuato a battere sul retroterra contadino della regione. E non in forme di idillio o di banale recupero nostalgico. E' vero che l'espansione della monocultura industriale e gli sconvolgimenti migratori rendono sempre più sbiadita la cultura autoctona. Eppure, proprio le ultime esperienze sembrano indicare nel Piemonte un luogo privilegiato di confronto e di riflessione, attizzando una « vocazione didattica » che viene puntualmente rigettata dal resto del Paese e contribuisce a ingenerare nella regione un senso di estraneità e alterità. A Castronovo sembra di poter concludere che il Piemonte è una sorta di grosso laboratorio: ripropone in modo più marcato problemi fondamentali che sono comuni a varie parti d'Italia; la sua originalità consiste nell'essere al centro delle fasi più intense di mutamento, consapevole di queste tensioni e realtà antitetiche. Che è un modo onesto, in fondo, di alleare pragmatismo e mito, di suggerire che l'uno si può spiegare con l'altro. Lorenzo Mondo