L'opera, la storia e la Scala di Giorgio Pestelli

L'opera, la storia e la Scala L'opera, la storia e la Scala I duecento anni del grande teatro lirico celebrati a Milano in venticinque sale del Palazzo Reale (Nostro servizio particolare) Milano, marzo. Bayreuth, il teatro sulla collina, costruito appositamente per la musica di Wagner, ha molto favorito la' credenza di un rapporto necessario fra il luogo teatrale fisico e la musica che vi deve essere calata; di qui la copia recente di annali, storie, mostre dedicate a teatri, concepiti come contenitori di quel contenuto che è l'opera in musica, rassegne quindi che al di là dell'aspetto puramente visivo, documentario e scenografico vogliono coinvolgere anche il fatto musicale. Naturale che una mostra del genere sia stata organizzata, per celebrare i suoi duecento anni di vita, dal Teatro alla Scala di Milano, oggi primo teatro musicale d'Italia, punto di riferimento internazionale del mondo operistico. Questi Duecento anni alla Scala 1778-1978, raccontati da Carlo Mezzadri, Giampiero Tintori e uno stuolo di collaboratori attraverso venticinque sale a Palazzo Reale, oltre a mostrare il teatro dietro il palcoscenico, chi ci lavora e come, offre parecchi spunti di meditazione anche al semplice storico della musica: e già nella suddivisione in fasce cronologiche qui predisposte i fatti della musica vengono a collimare con i grandi accadimenti della storia: la presa di potere di Rossini (1813) coincide con la fine di Napoleone, la conclusione del periodo centrale della carriera verdiana (1860) con la nascita dello Stato italiano unitario; e il 1883 è l'anno dell'utilizzazione della luce elettrica alla Scala ma anche l'anno della morte di Wagner. La mostra documenta con ampiezza, su un piano di efficace divulgazione, le vicende dell'opera moderna viste dall'angolo prospettico della Scala. Le sale (che sono fra le più interessanti) dedicate all'età napoleonica ricordano con immediata chiarezza la convivenza fra un rigido intervento statale nella produzione artistica e la persistente nostalgia del mondo classico, compendiato nel sipario ideato da Angelo Monticelli (qui se ne vede un bozzetto a olio del 1812): sullo sfondo Roma, in primo piano le Muse, Geni vari che invitano alle arti e alle scienze, allegorie che inalberano i nomi di Vitruvio, Palladio, Scamozzi e Vignola, e su una stele a sinistra la Musica che incide i nomi di Sacchini, Piccinni, Guglielmi, Paisiello e Cimarosa: ed è indicativo che manchi uno dei nomi più importanti degli anni precedenti Rossini, quello di Simone Mayr che se ne stava radicato a Bergamo ed era rimasto tedesco di formazione e cultura musicale. Questo fondo aulico, neoclassico, doveva poi scontrarsi con Verdi e aiuta a capire perché la Scala non fu a metà Ottocento un teatro verdiano; salvo il trionfo decretato al Nabucco (1842) e l'apoteosi in una Milano del tutto diversa con Otello e Falstaff, la carriera teatrale di ! Verdi. Verdi si sviluppò altrove: Venezia, Roma, Napoli, Firenze furono luoghi più pronti e predisposti per tenere a battesimo le sue opere decisive; ma questo non vuol dire che Milano non fosse tuttavia la vera culla artistica dell'arte verdiana, il centro della sua formazione musicale, letteraria e culturale: una cultura, che circola nelle prime sale della mostra, sempre fedele alla concretezza dell'illuminismo lombardo, con una nota persistente di raffinatezza, attenta alle novità di Vienna, Parigi e Londra, animata da un'ansia di sempre nuovi acquisti che sarà costante nella personalità di Dopo il 1861, nato il regno d'Italia, il problema cruciale fu quello di arginare la creduta decadenza dell'opera, di organizzare su basi nazionali la diffusione della cultura musicale (conservatori, società di concerti nascono allora in tutta Italia): Boito e Faccio appena diplomati vanno a perfezionarsi a Parigi, invertendo la rotta secolare del viaggio d'istruzione in Italia; Wagner incontra a Napoli il giovane Humperdinck, l'autore di Hànsel e Crete! e trasecola sentendo che è venuto a studiarvi musica: «La musica qui? », aggiungendo in italiano «... tempi passati!». I nomi di autori e di opere straniere che ruotano in questi anni attorno alla Scala sono molti; ma scelti con una certa diffidenza verso le novità più radicali: si affacciano Gounod, Flotow, Halévy, ma il pesce grosso, Wagner, finì prima nella rete del Comunale di Bologna. Le cose cambiarono con Toscanini all'inizio del nostro secolo: il processo di apertura a orizzonti nuovi, da Wagner a Debussy da Strauss a Busoni, è stato capillare e la mostra Io documenta con puntualità, indicando anche la via per cui passò, quella dell'esecuzione critica e consapevole: il teatro d'opera si trovò trasformato, da luogo di ritrovo divenne sede di comunicazione artistica. La galleria dei direttori e degli interpreti che hanno fatto la storia dell'interpretazione moderna è qui raccontata in una ricca serie di fotografie: un progresso continuo, andato poi a infrangersi nella caduta del Wozzeck di Berg nella stagione 1952; applaudita a Roma in pieno regime fascista, nella Milano del miracolo economico 1 opera fu investita da un coro di prole ste, tanto che Mitropulos interruppe lo spettacolo e cercò di spiegare al pubblico cosa stava sentendo: e l'immagine esposta è bellissima, paziente e sicuro, con un gesto da oratore greco. Certo, da quella sera Milano musicale e la Scala hanno cambiato volto: le ultime sale, dedicale al pubblico nuovo, non sono storia ma realtà odierna e per quanto documentate sono superate dall'entusiasmo e dall'impegno di comprensione che si possono vedere nel teatro stesso; non solo quando Bòhm dirige la Nona di Beethoven, ma anche se in programma c'è il Wozzeck o il Mose e Aronne. Giorgio Pestelli