Si diceva: "Finché l'edilizia va..."

Si diceva: "Finché l'edilizia va..." NAUFRAGA UNA DELLE FAVOLE DEL MIRACOLO ITALIANO Si diceva: "Finché l'edilizia va..." La frenano l'equo canone e gl'investimenti scarsi e troppo onerosi - Nel '77 in Italia solo 150 mila alloggi ultimati contro i 500 mila della Francia, i 430 mila della Germania federale - Gravissimo il problema dei giovani e dei nuovi nuclei familiari Roma, marzo. " «Finché l'edilizia va», cominciavano le tavole del miracolo economico all'italiana. Ora l'edilizia sta andando a fondo. Lo scorso anno soltanto 150 mila alloggi ultimati (comprese le seconde e terse case), contro i 500 mila della Francia, i 430 mila della Germania Federale, i 300 mila della Gran Bretagna, i 270 mila della Polonia. L'Olanda e la Cecoslovacchia hanno prodotto 120-150 mila abitazioni contando 13-14 milioni di abitanti e non avendo la nostra lame arretrata di case a fitti sociali. Queste sono state pochissime in Italia: 20 mila nel settore dell'edilizia sovvenzionata, 8 mila in quello dell'edilizia convenzionata, che ha raggiunto costi troppo alti. Dicono all'Ance (Associazione nazionale costruttori): «Il solo progetto dell'equo canone è un freno agli investimenti nell'edilizia abitativa. Il credito si è fatto scar¬ so e troppo oneroso. La legge 10, che istituisce il diritto comunale di concessione per costruire, ha fatto salire i costi del 20 per cento. Non ci sono più i presupposti per l'edilizia di libera iniziativa, e quella di iniziativa pubblica ha dimensioni modeste». / sindacati confermano l'esistenza di una grave crisi, indicando però cause diverse. Me ne parla Claudio Truffi, segretario generale della Flc, sindacato unitario degli edili: «I miliardi dei vari pacchetti Lauricella, Bucalossi e altri, non sono stati utilizzati. Si può parlare di un vero e proprio sabotaggio della legge 865 per la casa. Era farraginosa, ma venne praticamente bloccata. Una delle responsabilità maggiori va cercata nella politica che ha favorito la distorsione del credito, consentendo alle banche di paralizzare l'edilizia abitativa mentre centinaia di miliardi andavano ai Caltagirone. Quella a carattere sociale non ha avuto finanziamenti costanti; molti progetti sono rimasti sulla carta e molte cooperative sono fallite». Nelle trattative fra i partiti per il nuovo governo dovrebbe essere almeno chiarito questo punto: esiste una incapacità strutturale a realizzare la politica della casa promessa da troppi anni, oppure si tratta di mancanza di volontà mascherata dalle parole? I fatti sono più. che allarmanti. Mai l'edilizia italiana era scesa così in basso per quantità di abitazioni. Negli Anni Cinquanta la media annua era di 250 mila alloggi. Nel 1961 si salì a 313.401. Nel 1964 fu toccata la punta di 450.006, esasperando la produzione di case come «beni rifugio»: il 66,6 per cento del totale era dovuto ad abitazioni di tipo «medio» (eufemismo usato per indicare una categoria inaccessibile a chi aveva bisogno di un tetto) e di lusso. I deYlknquìlm~o~~A^pmando'~la | sola Xegge det msrcato ogni Tra il 1965 e il 1972 la media fu di 300 mila unità, forse 500 mila con quelle abusive. Poi il declino (1975: 219.647), e il crollo nello scorso anno. Nel 1978 è prevista una ulteriore riduzione del 15 per cento. Il dato assume rilievo storico, come segno ultimo del fallimento di una politica impostata sullo spreco edilizio e sul più miope disinteresse per le tensioni originate dalla cronica carenza di abitazioni a fitti sociali, con relativi servizi. I governi europei consci della necessità di un diffuso consenso hanno agito da molti anni sulla leva dell'edilizia sovvenzionata, che in Olanda arriva al 70 per cento del totale. In Gran Bretagna il 31 per cento delle famìglie affitta la casa da enti pubblici, a canoni politici. In Italia le case di tipo economico-popolare hanno sempre avuto uno spazio minimo: scese al 5 per cento del totale nel 1970, sono arrivate al 14 per cento lo scorso anno, perà su un totale talmente ridotto da pesare pochissimo in assoluto. Conseguenze: nel solo comune di Roma mancano 556 mila stanze, 615 mila nella provincia di Milano, 532 mila nella provincia di Torino. In tutta Italia quasi due milioni di alloggi sono abitati da due o più famiglie. A Palermo mancano 100 mila appartamenti civili a fitto sociale. Gravissimo il problema dei giovani e dei nuovi nuclei famigliari, che di regola hanno redditi bassi. Ogni anno si formano 350 mila nuove coppie (l'eccedenza dei nati sui morti è di 230 mila unità. Teoricamente si dovrebbero costruire 200 mila alloggi soltanto per rispondere alla domanda di chi si sposa, tenendo conto del ricambio intuibile dall'indice di mortalità. In pratica 8 nuove coppie su 10 sono destinate alla coabitazione con i genitori o con altre coppie che hanno trovato una vecchia casa, igienicamente «pessima», nelle parti più degradate dei centri storici; ultime riserve di abitazioni a fitto sopportabile. In attesa dell'equo canone l'aumento degli affitti, in parte «neri» e cioè superiori a quelli del contratto, si è fatto impressionante. Ho viaggiato nei giorni scorsi sul treno dei pendolari Fiat che lavorano a Torino e dormono a Asti, dove il livello degli affitti è più basso. Si considerano fortunati quando pagano 80-100 mila lire mensili, contro il sacrificio quotidiano di un viaggio che inizia alle 4 di mattina, con sveglia alle 3. A Roma un affitto di 200 mila lire in periferia viene richiesto ormai con disinvoltura. A Genova 100 mila per tre stanze senza riscaldamento, otto piani di scale, lavori di restauro a carico famiglia italiana dovrebbe contare su un reddito di almeno 500 mila lire mensili per disporre di un alloggio molto modesto, di 1 milione per abitare civilmente. Anche se il nuovo piano per l'edilizia garantisse la produzione di 80 mila appartamenti a fitto sociale per 10 anni (è l'ipotesi migliore), il problema della casa verrebbe appena scalfito. Considerato improbabile uno sforzo maggiore, non resta che riesaminare l'utilizzazione del patrimonio esistente. In apparenza è sovrabbondante: 68 milioni di stanze (tenendo conto di quelle costruite dopo il censimento 1971), per 56 milioni di italiani. Il Cresme (Centro di ricerche economiche, sociologiche e di mercato nell'edilizia) ha aTializzato per conto dell'associazione costruttori questo patrimonio in buona parte inutilizzato (oltre 2 milioni di abitazioni vuote), confrontandolo col «deficit abitativo» stimato in 17 o 12 milioni di stanze addottando ì diversi parametri. Quelle in soprannumero sono in parte vuote (seconde e terze case, case abbandonate nelle campagne e nei centri storici, case troppo costose) in parte si trovano in alloggi troppo grandi (11 milioni di vani in appartamenti con più di 6 vani utili). Con un'estesa trasformazione degli alloggi troppo grandi, e una ridistribuzione generalizzata, il deficit abitativo scenderebbe a 2 milioni e mezzo di vani o si annullerebbe addirittura, secondo diversi standard. L'ipotesi non è realistica, come avvertono gli stessi studiosi del Cresme. Le seconde e terze case non sono utilizzabili. Molle abitazioni troppo grandi non sono idonee agli usi richiesti, ammesso che i proprietari accettino una politica fiscale rivolta a incoraggiare la trasformazione e la ridistribuzione. Il Cresme fa l'ipotesi a fini dimostrativi, accompagnandola con un calcolo degli investimenti necessari: basterebbero 15 mila miliardi, diluiti in un lungo periodo, contro gli 84 mila miliardi richiesti dalla costruzione di case nuove per colmare il deficit esistente. Non realistica ma suggestiva, l'ipotesi suggerisce al nuovo governo l'urgenza di esaminare finalmente, in modo analitico, l'uso del patrimonio edilizio esistente. E' il passo indispensabile per avviare una seria politica della casa non fondata soltanto sulla costruzione, onerosissima sotto ogni aspetto, di abitazioni nuove che incidono marginalmente sul fabbisogno arretrato. Un enorme patrimonio di vani, oltre 8 milioni, si trova nei centri storici ed è in parziale abbandono (stato di conservazione pessimo nel 36 per cento dei casi). Molti privati potrebbero essere indotti a risanare e trasformare le loro casa mal suddivise, sotto-utilizzate, se venissero decise misure fiscali e creditizie vincolate a convenzioni con equo canone. Esiste inoltre una massa di abitazioni di proprietà pubblica male amministrate, addirittura sconosciute nella loro precisa entità (si parla di un milione di alloggi). Troppe «case popolari» sono assegnate a famiglie coi redditi superiori alle norme, oppure con criteri clientelari. «Non sarà facile metterci le mani, ma un giorno qualcuno dovrà decidersi»; mi dice il segretario generale della Flc. E' un discorso spinoso, e non soltanto per i sindacati. Non meno spinoso quello del passaggio alla mano pubblica, per una gestione sociale, delle centinaia di migliaia di alloggi tenuti vuoti per attese speculative. Ma una nuova politica per la casa non può essere indolore, né neutrale. Per ora non se ne vede traccia. La «bozza Andreotti» ripropone il piano decennale per l'edilizia, di cui parleremo; è un primo tentativo di programmazione ma ha i limiti dei provvedimenti rivolti ad attenuare una piaga sociale, non a cancellarla. Mario Fazio

Persone citate: Andreotti, Bucalossi, Claudio Truffi, Lauricella, Mario Fazio