Truffa sconosciuta a favore di pci e dc di Nicola Adelfi

Truffa sconosciuta a favore di pci e dc Truffa sconosciuta a favore di pci e dc Tra i motivi che contribuiscono a mantenermi guardingo nei confronti del « compromesso storico » e delle sue varianti, uno riguarda la supremazia dei comunisti nell'influenzare la cultura di massa, ossia l'opinione pubblica. Valga qualche esempio. Provatevi a dividere 10 per 3. Il risultato è 3, poi una virgola, poi una serie infinita di 3. L'approssimazione è via via maggiore, ma non ha mai fine. Lo stesso può dirsi per due rette che si avvicinano senza mai coincidere interamente, neppure se prolungate all'infinito. Ebbene, anni fa, quando l'on. Moro disse che i rapporti tra la democrazia cristiana e il partito comunista potevano configurarsi come « convergenze parallele », tutti ne ridemmo. L'uomo non fu preso sul serio: in quella singolare espressione geometrica si volle vedere una esasperata ambiguità intellettualistica. Ma ora non più. Il tempo sta dimostrando che « le convergenze parallele » di Moro anticipavano spinte politiche verso una minore ostilità e una maggiore comprensione tra i due maggiori partiti italiani al fine di evitare al Paese uno scontro rovinoso. Anche nei giorni scorsi l'on. Moro è tornato a parlarne: de e pei devono conservare la loro intrinseca identità, i propri ideali, e tuttavia possono avvicinarsi con l'intento di tirare il Paese fuori della crisi. Passiamo ora a un'altra espressione, « variabile indipendente », di matrice comunista. Questa, si, che era tutta roba da ridere. Com'è pensabile di garantire ai lavoratori un tenore di vita più alto di anno in anno, sempre e comunque, anche nel caso di un grave collasso dell'economia, quando in fondo al barile non c'è più niente da grattare e nessuno all'estero è disposto a farci il benché minimo prestito? Questo lo capisce anche l'ultimo cafone calabrese, tanto per dirla con Togliatti. E però la validità logica della « variabile indipendente » è durata una decina di anni, mai scalfita dalla più lieve perplessità popolare. Non c'è che dire: i comunisti sono bravissimi nel manovrare l'opinione pubblica. Fate il caso che a parlare di « convergenze parallele » fosse stato un Togliatti o un Berlinguer: allora l'espressione sarebbe stata imposta all'opinione pubblica come un bel fiore da mettere all'occhiello della cultura marxista-leninista, un bell'esempio dell'acuta e lungimirante concretezza di quella cultura. Viceversa, se Moro o un altro esponente democristiano avesse avanzato la tesi della « variabile indipendente », essa sarebbe stata sommersa da una cascata di lazzi e sberleffi. Dispiaccia o no, cosi vanno le cose nel nostro Paese. E non da oggi. Venticinque anni fa il governo presentò un disegno di legge al fine di conferire una maggioranza stabile nella Camera allo schieramento dei partiti che avesse ottenuto il 50 per cento più uno dei voti nelle elezioni del 1953. Leggi più o meno analoghe esistono in Paesi sicuramente democratici. Il principio ispiratore della nuova legge, detta maggioritaria, consisteva nel dare al Paese un governo che durasse per una intera legislatura, cinque anni, assicurando in questo modo l'impostazione e l'attuazione dei programmi governativi per un verso, ed evitando periodiche crisi di governo per un altro verso, quelle crisi che spesso degradano la vita politica e spia- nano la strada a regimi autoritari. Per l'Italia basterà accennare alle crisi del biennio 19201922 che portarono Mussolini al potere; per la Germania alle crisi della Repubblica di Weimar che si conclusero con l'avvento di Hitler. Fosse buona o cattiva la legge di riforma elettorale proposta per il 1953, non sto qui a discutere. Ricordo solo che i comunisti la definirono « legge truffa », e che con una propaganda martellante, uscio per uscio, riuscirono a convincere una ristrettissima maggioranza di italiani a votare contro la pretesa « truffa ». Lo ripeto, qui non sto a discutere su quella legge. Qui mi preme piuttosto mettere in rilievo che una truffa elettorale viene perpetrata da trent'anni, e pacificamente tollerata, grazie a un accordo tra democristiani e comunisti. Mi riferisco alla vigente legge elettorale. Si dice che sia proporzionale, ma non è vero. Facciamo qualche conticino alla buona. Nelle ultime elezioni, 20 giugno 1976, coloro che votarono per i 630 seggi della Camera furono 36 milioni 715 mila. Or bene, grazie a una legge leonina, diciamo da « compromesso storico », ai candidati democristiani per essere eletti deputati bastarono 54 mila voti, ai candidati comunisti 55 mila voti. E adesso andiamo a vedere l'entità della truffa consumata ai danni dei partiti minori. I repubblicani pagarono con 81 mila voti l'elezione di ciascun deputato; e con 82 mila voti i socialdemocratici, con 87 mila voti i radicali, con 93 mila voti i demoproletari e addirittura con 96 mila voti i liberali. Tuttavia il caso più sfacciato di una legge mantenuta in vita per un tacito accordo tra democristiani e comunisti riguarda la sorte toccata al psiup nelle elezioni del 1972: nonostante che 648 mila elettori avessero votato per quel partito, nessuno dei suoi candidati risultò eletto. Furono tutti voti mandati all'ammasso e che servirono per gran parte a ingrossare i gruppi parlamentari della de e del pei. Inevitabile è il paragone con i ladri pisani che di notte rubavano insieme e litigavano di giorno. Tenendo conto di questi precedenti, due sono le principali prospettive che vedo profilarsi tra le nebbie di un accordo indissolubile tra democristiani e comunisti: e tutt'e due accrescono la mia diffidenza nei riguardi di qualsiasi formula o intesa che accentui il predominio dei due maggiori partiti a scapito degli altri. Nel caso che le parallele convergano al punto di diventare una sola retta, verosimilmente sarà di colore rosso. Per la loro compatta disciplina e perché più abili nel maneggiare gli strumenti della propaganda tra le masse, prima o poi i comunisti prenderebbero il sopravvento sui democristiani; e rimasti dominatori incontrastati, tornerebbero fatalmente alla loro antica vocazione di farsi partito unico. Quando l'on. Longo, il presidente del pei, ribadisce con categorica fermezza che il suo partito era e rimane leninista, di certo non parla a vanvera. Ma supponiamo pure che i democristiani, anguilleschi come sono, riescano a non farsi soffocare dall'abbraccio comunista, e limitino l'accordo solo a governare insieme camminando sottobraccio. Ora domandiamoci: quanto durerebbe la loro camminata? L'andare insieme sottobraccio non finirebbe con uno sgambetto improvviso e un capitombolo finale? Sforziamoci tuttavia di essere ottimisti, nel senso di non attribuire nessuna intenzione maliziosa ai democristiani e ai comunisti nel momento in cui decidono di governare stabilmente insieme. In quel caso non ci sarebbe più spazio per i partiti intermedi o minori. Diventerebbero larve di partiti, fantasmi di cose che furono. Di fatto cesserebbe qualsiasi contrasto o confronto di idee politiche. La dialettica andrebbe a farsi friggere nella padella dei due partiti egemoni, con conseguente impoverimento generale degli ideali e dei contenuti democratici. Repressa di fatto ogni forma di opposizione, i dissenzienti si vedrebbero condannati al silenzio oppure a organizzarsi fuori della legalità, a congiurare nella clandestinità, a diventare persino terroristi. E allora, che fare? La risposta logica è che la democrazia si salva in Italia solo se tra i due partiti maggiori viene mantenuta, magari aumentata, la distanza di sicurezza: quella distanza che finora, sebbene sempre più a stento, è stata occupata dai partiti detti per l'appunto intermedi. Ma è possibile dar maggiore consistenza nel Parlamento a quei partiti? In teoria, si, è possibile. Con un referendum popolare si può modificare la legge elettorale in maniera che non sia più a tutto vantaggio della de e del pei. E se l'egoismo di parte di questi due partiti non lo consente, si può chiedere agli elettori di non ammassarsi sulla sponda democristiana e su quella comunista, compromettendo l'equilibrio della barca, facendola sbandare di qua e di là, sempre sul punto di capovolgersi. In teoria dunque è possibile. Ma lo è anche sul terreno pratico? In una lettera pubblicata nella rubrica « I lettori discutono » del 28 febbraio il signor Vincenzo Guarrella di Catania, a proposito di un articolo intitolato « Gli altri partiti hanno un futuro » scrive che « è un auspicio, non una previsione ». In linea generale, quel lettore mi trova d'accordo. Osservo tuttavia che se un auspicio acquista la forza di una convinzione, e allarga via via il numero dei convinti, a un certo momento cessa di essere un auspicio, diventa una previsione e può infine trasformare certe situazioni apparentemente immobili e immutabili. Nicola Adelfi

Persone citate: Berlinguer, Hitler, Longo, Moro, Mussolini, Togliatti, Vincenzo Guarrella

Luoghi citati: Catania, Germania, Italia, Weimar