L'ultimo sabato sera

L'ultimo sabato sera L'ultimo sabato sera FRANCESCO ROSSO Tutto finì quando le cose incominciavano a marciare. E finì male, naturalmente, perché le conclusioni buone non sono di questo mondo. Figurarsi per quell'omino alto un metro, sbilenco, gobba a sinistra, occhi acquosi. Aveva appreso il mestiere di ciabattino al paese, dove lo chiamavano «il bagatto», perché non avrebbe potuto fare altro con quel suo fisico sgraziato che si sarebbe frantumato alla prima fatica. Venne in città al seguito dei genitori e fratelli, loro sì validi e gagliardi. Gli affittarono un buio scantinato, gli comperarono un deschetto (gli attrezzi, lesina, trincetto e pece se li era portati dal paese) e gli dissero di continuare lì il suo mestiere di uomo inabile. Gli comperarono anche un po' di stringhe marrone e nere, alcune scatolette di lucido, anch'esso bicolore, e gli dissero di attendere i clienti. Quali tristi anni in quel buio antro che aveva come tutta luce una porta scarsa di vetri che dava sul cortile; ogni tanto riusciva a vendere un paio di stringhe, una scatola di lucido, ma niente scarpe da risuolare, o tacchi da rifare. E sì che il mestiere lo conosceva bene; fin da bimbo s'era seduto al deschetto in paese, sempre cercando la perfezione nel battere il cuoio delle suole, nel ridare un aspetto accettabile a vecchie scarpe deformate. E 'qui, in città, proprio niente, nemmeno una scarpa vecchia da rattoppare, se non da risuolare. Gliene arrivarono, ma per umiliarlo di più. Erano disfatte ciabatte di gente che non si sapeva come riuscisse a sopravvivere, forse ripescate nelle pattumiere e portate a lui per rimetterle un po' in salute, farle durare ancora un po'. Lo pagavano come potevano, più cicche e giornali che lire. A casa gli dicevano di non preoccuparsi, c'erano loro a provvedere. La gente non andava più dal ciabattino perché le scarpe, un po' deformate e coi tacchi consumati, finivano nell'immondezzaio. Si preferiva comperarne di nuove anziché far aggiustare le vecchie. La gente è ricca, tutti vogliono il meglio; figurarsi le scarpe rappezzate. Il ciabattino ascoltava, conveniva, ma si sentiva umiliato, anche perché la domenica, volendo giocare a carte in un'osteria, doveva farsi dare dai genitori e dai fratelli il denaro per il mezzo litro di vino; e questo proprio non gli andava. Un giorno, con fare disinvolto, sulla sua porta dai vetri opachi di sporcizia si affacciò una signora. « Guardi come mi riducono le scarpe i miei bambini, disse; bisognerebbe comprargliene un paio la settimana ». Poteva risuolarle con cuoio robusto? Il ciabattino si sentì invadere da un senso di gratitudine; non fosse stato per quel suo desiderio di indipendenza economica, glie le avrebbe riparate gratuitamente. Dopo la signora ne vennero altre, eppoi ancora altre, non più con scarpe di bambini soltanto, ma con le proprie, e quelle dei mariti, e dei figli alti. « Sa, con quello che costano le scarpe oggi », dicevano come a scu¬ sare quella loro discesa, dal ciabattino ,il quale, sempre più storto nella persona, trascorreva ormai ore ed ore al deschetto; tagliava il cuoio col trincetto, forava con la lesina, cuciva col refe impeciato, al ritmo di una radiolina accesa per tutto il tempo. Prese l'abitudine di consegnare il lavoro finito soltanto il sabato sera, per portare anche lui a casa, come i fratelli, il salario settimanale. Consegnava scarpe ed incassava lire, e gli incassi aumentavano sempre perché, oltre al lavoro, egli aveva fatto lievitare anche i prezzi, e si era rifornito di lucidi di marca; di stringhe no, uomini e donne preferivano le scarpe a mocassino. Un sabato sera, consegnato l'ultimo paio di scarpe, incominciò a contare l'incasso; duecentomila lire. Mai guadagnato tanto e pregustava i sorrisi soddisfatti dei suoi. La porta si spalancò di colpo ed entrarono due giovani. « Niente storie, molla il danaro », disse uno dei due puntando una pistola. Il ciabattino era come paralizzato, ma l'idea di perdere quel danaro lo rese furente. Il deschetto era lì, dietro a lui, ed il trincetto luccicava invitante. Lo afferrò d'impeto, deciso a difendere il suo denaro. Il giovane con la pistola gli sferrò un pugno che lo gettò disteso sul deschetto. « Che idee hai, gobbaccio? ». E senza esitare, sparò. Lo trovarono rannicchiato nel deschetto, morto fulminato, con alcuni biglietti da mille stretti fra le dita nere di pece; pareva si fosse adagiato nel suo lettuccio di fatica. Il lieto evento pluralistico: «Tutto i suoi padri» (Maccari)

Persone citate: Maccari