I perché non risolti in una storia della dc

I perché non risolti in una storia della dc I perché non risolti in una storia della dc «Sturzo obbedisce al Papa, così come gli aveva obbedito nel 1929, per promuovere un blocco nazionale esteso ai neofascisti». E' la raffigurazione, semplicistica e categorica, della cosiddetta «operazione Sturzo» del 1952, quale esce dalle pagine della nuova, discguale eppur stimolante, Storia della de scritta da Giorgio Galli per i saggi laterziani non con animo di storico ma di sociologo: un libro che si inserice con la sua tematica sollecitatrice nel gran travaglio che lo scudo crociato ha traversato in questi giorni di fronte al tema-chiave dell'apertura ai comunisti e che sembra essersi composto grazie alla meditata soluzione di equilibrio dovuta alla « demiurgica » saggezza di Moro. Esaminiamo un momento quella frase, come potremmo esaminarne cento altre. Il Papa cui Sturzo avrebbe obbedito nel '52 per le alleanze amministrative di Roma era Pio XII, nel momento massimo della sua parabola «geddiana» e «anti-degasperiana»: lo stesso Pontefice che si era rifiutato di ricevere anche una sola volta in Vaticano il sacerdote antifascista reduce dal lungo esilio anglo-americano. Il Papa precedente, cui Sturzo avrebbe obbedito nel 1929, al momento della stipulazione dei Patti laterancnsi, era Pio XI: il gran conservatore lombardo che aveva immolato il partito popolare, la creatura prediletta di don Luigi, alle vendette e alle rappresaglie del fascismo, il Pontefice che avrebbe perseguito e tenacemente voluto gli accordi «concordatari» col regime fascista, gli stessi accordi che avrebbero disperso e disanimato l'antifascismo cattolico in. esilio, di cui Sturzo era il più autorevole «leader». Certo, come in tutto il libro di Galli, un'apparenza di verità c'è, anche nelle affermazioni più singolari o sconcertanti. E' certo che Sturzo piegò all'ingiunzione di Papa Pacelli, e dell'«entourage» pacelliano, di tentare una lista civica a Roma estesa alle forze di destra per contrastare la conquista del Campidoglio da parte del blocco delle sinistre, capeggiato dall'immalinconito e deluso Nitti: quanto per convinzione di politico, e quanto per obbedienza di sacerdote, resta da stabilire. Ma Galli non sosta, come pur dovrebbe, sull'atteggiamento, a dir poco, bivalente che il sacerdote siciliano assunse nel corso della vicenda e che tanto contribuì a farla fallire: non ricorda la correzione decisiva del «listone» in una lista aperta a tecnici, non ricorda i colloqui con Villabruna e Pacciardi e Romita (padre), non ricorda la rinuncia precipitosa al mandato non appena ne intuì tutti i rischi di rottura degli equilibri democratici del Paese, in sintonia con De Gasperi che pur non amava La storia di Galli è una storia per grandi linee, tendenzialmente semplificatrici e scarnificatrici, come avviene a chi introduce gli schemi, spesso illusori o perentori, della sociologia nel campo dell'indagine storica. Galli, questo laico intransigente, questo socialista di sempre che ha vissuto l'esperienza comunista tanto da conoscerla bene dall'interno, subisce più del necessario l'influenza di Gianni Baget Bozzo. E parte, nella premessa al volume, dall'accettazione dei tre tipi fondamentali di teologia della politica emersi nel corso della storia della Chiesa, secondo la partizione del sacerdote ex-dossettiano, che ha riassunto tutte le contraddizioni di questo trentennio. Riassumo. Primo. Lo schema di Eusebio da Cesarea, per cui la Chiesa intervenne nella società, ai fini dell'attuazione dei suoi princìpi, attraverso un'istituzione politica autonoma. Secondo. Lo schema di Papa Gelasio I, per cui la Chiesa interviene direttamente nella società, subordinando alla sua gerarchia il potere politico laico. Terzo. Lo schema di Sant'Agostino, del Ve Civitale Dei, per cui la Chiesa rinuncia a intervenire nella gestione del potere, per l'antitesi insanabile fra le due società e le due potestà, la civile e la religiosa. Lievito e segreto della storia umana di tutti i tempi, e per questo fermento di libertà. Con l'ausilio dottrinario di Baget Bozzo, che lo integra nei domini della teologia altrimenti inaccessibili, Galli non ha più dubbi: .tutta, o quasi, la storia della de post-bellica è attuazione dello schema «eusebiano». Chi si divertisse a contare quante volte è citato il termine «eusebiano», nelle cinquecento pagine del volume, arriverebbe a risultati sorprendenti. Il nesso, che pure esiste, fra magistero vaticano e azione del partito è gonfiato, e direi sistematizzato oltre quelli che furono gli infiniti motivi di contrasto fra i due mondi: motivi che vengono sfumati od omessi, con qualche temerità od ingiustizia, ' soprattutto per il periodo degasperiano. E «tout se tient»: come avviene nelle perfette costruzioni sociologiche, qualcosa che ricorda i «meccani» della nostra infanzia remota, i giuochi incantatori dei fanciulli, cui la sociologia tante volte assomiglia. Di suo, in queste pagine, Galli apporta una tesi fondamentale: quella della de come «partito conservatore di massa», frutto di due diverse componenti, il moderatismo borghese e il popolarismo cattolico. Lo schema di Galli, l'autore del Bipartitismo imperfetto, uno scrittore che con la sua vivacità e spregiudicatezza intellettuale ha contribuito come pochi al dibattito culturale e civile di questi anni, è ben noto: la de è il massimo ostacolo alla realizzazione di un'alternanza fra destra e sinistra, in quanto occupa indebitamente spazi non suoi, rifiutandosi di assolvere alla funzione di partito o blocco moderato che la storia e la composizione sociale le assegnano, una funzione tale da lasciar vivere e crescere una sinistra omogenea e organica capace di candidarsi alla guida del potere. Il rovescio del compromesso storico; la coerente premessa all'alternativa. E' una tesi che da anni Galli sostiene con acutezza di analisi e con ricchezza di documentazione in un'opera pubblicistica che si fonde intimamente, e senza soluzione di continuità, con l'opera dello studioso e del politologo. Ma è una tesi che si presta a più di una obiezione di fondo. Non a caso, per poterla suffragare di continuo, Galli deve prescindere del tutto o quasi dalla storia degli antenati della de, una storia in cui un posto non secondario occupa l'opposizione del laicato cattolico operante nell'ultimo trentennio dell'Ottocento, intrisa di fermenti di messianesimo sociale almeno pari ai piani di reazione o di restaurazione politica, perfino con vene temporalistc. Per il periodo giolittiano, lo storico dell'attuale de si rimette all'analisi della storiografia liberaldemocratica, al cui giudizio non sfuggì mai il persistere di un pen¬ siero sociale-politico dei cattolici autonomo e in qualche misura dirompente rispetto agli assetti borghesi, mai riassorbito dai compromessi o dagli accorgimenti elettorali dei vari «patti Gentiloni». Sul partito popolare, che fu pure una complessa e singolare esperienza, Galli è sbrigativo più del necessario. Dal '45 in avanti, l'intera storia di Galli coincide con una tesi in certo modo prefabbricata: la collocazione a destra della de, di una de che deve occupare quel posto anche quando non lo occupa, di una de che deve raccogliere tutti i fermenti del moderatismo anche quando ne prescinde, di una de che deve essere (e certo in parte Io è) l'erede dei blocchi d'ordine clerico-moderati, al servizio di un'ideologia di massa, più o meno identificata con l'«occupazionc del potere», la formula di Orfei. I «leaders» del mondo laico — La Malfa lo ricorda nell'intervista a Ronchey — non intuirono negli Anni 45 il peso potenziale della componente democratico-cristiana negli equilibri futuri del Paese, credettero che lo scudo crociato fosse solo il partito del Papa. E' un errore, che non potrebbe ripetersi oggi, trent'anni dopo. La de è un partito composito e «polivalente», che non si è mai esaurito nello schema di un blocco d'ordine o di una concentrazione moderata, che ha sempre tratto forza e alimento da una sua visione cristiano-sociale, non importa se nelle componenti integralista o de mocratica. Sono punti che risaltano dai singoli capitoli di Galli, ma si perdono nell'insieme dell'opera. Un esempio. Uno dei capitoli più suggestivi del libro è quello dedicato al riformismo di Dossetti. Dossetti è un personaggio che Galli sente; quel versante di laborismo cristiano gli è congeniale. Il salto di qualità di una certa visione dell'economia pubblica, rispetto al neo-liberalismo dei notabili popolari, non è mai sottovalutato né smentito dall'indagatore di oggi. Sennonché il fallimento di Dossetti, sul piano del diretto impegno politico, è rilevato quasi come la fine di un'epoca: dimenticando quello che uno storico non deve mai dimenticare, quanto cioè di Dossetti, sue illusioni, sue grandezze, sue anche asprezze, si sia travasato nella nuova generazione dei cattolici politici interpreti della svolta del centro-sinistra. II giudizio, così limitativo, dell'esperienza di Moro rientra in questo errore di partenza. Perché Galli non ha sostato un momento di più sul legame fra Dossetti e Moro? Il secondo momento «degasperiano» della de, appunto quello di Moro, non sarebbe stato possibile senza una lontana radice e comunque senza una precisa influenza dossettiana. Ricordo sempre il mio amico, e antico maestro, Giorgio La Pira: un uomo che ha pesato nella storia segreta della de più di quanto risulti da questo libro. Quando facevo parte del governo bicolore presieduto da Moro, incontrandomi talvolta nella nostra vecchia facoltà fiorentina di via Laura, egli amava apostrofarmi: «Il vostro governo è quello che Dossetti avrebbe voluto!». Venticinque anni prima, nell'estate del '51, Dossetti si era ritirato addirittura dalla politica proprio alle soglie della costituzione di un bicolore fra de e repubblicani. La storia è piena di sorprese e di imprevisti, molto più della sociologia. Giovanni Spadolini

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