Realtà dell'alternativa jugoslava di Frane Barbieri

Realtà dell'alternativa jugoslava Realtà dell'alternativa jugoslava Partendo alla volta di Washington, Tito sfida gli anni e i tempi. Gli anni, in quanto, avviato ormai verso i novanta, chiude con quest'ultimo viaggio in soli sei mesi un significativo quanto difficile periplo delle quattro più importanti capitali del mondo: Mosca, Pechino, Parigi e Washington. Sfida pure i tempi perché compie la visita alla capitale americana nel momento in cui i dialoghi mondiali si fanno sempre più astiosi e la ricerca di convergenze sempre più precaria (come il Maresciallo ha potuto verificare da vicino seguendo la Conferenza di Belgrado e intervenendovi senza esito con una lettera-richiamo a Breznev). A prescindere dall'effetto finale dell'incontro con Carter, un esito a favore del Presidente jugoslavo sembra fin da ora scontato: l'importanza attribuitagli in ogni punto del grande quadrilatero mondiale, il fatto che Mosca abbia dovuto tributargli spettacolari accoglienze benché fosse di passaggio verso Pechino, che poi Pechino si sia messa a gareggiare nei fasti dell'accoglienza con i sovietici benché l'ospite arrivasse direttamente da Mosca, e che ora infine Washington parli del «significato eccezionale, molto supe¬ riore a quanto si possa immaginare» dello statista sulla scena internazionale, tutti questi fatti presi insieme confermano che Tito è riuscito nell'impossibile intento di mantenere negli anni rapporti equidistanti con i grandi poli di attrazione mondiale, senza cedere da nessuna parte. Pare che Washington, dando un'importanza particolare alla sua visita, abbia cominciato con l'abbandonare la consuetudine di giudicare la Iugoslavia esclusivamente secondo la misura in cui sembrava in un determinato momento avvicinarsi all'Est per allontanarsi dall'Ovest o viceversa. Il tenore degli incontri alla Casa Bianca tuttora non è prevedibile né misurabile. L'unica previsione possibile è che i colloqui saranno franchi, data la franchezza dell'intervista concessa da Tito a James Reston alla vigilia della partenza. Dall'alto della sua esperienza di ultimo dei «grandi» sopravvissuti, Tito è sembrato stare al di sopra delle beghe e giudicare con distacco critico le ingarbugliate prospettive del mondo. Rimanendo l'incognita Washington, si può dire senza rischio di sbagliare che finora, nel periplo quadrilaterale, Tito sia uscito con impressioni più fred- de e inquietanti dagli incontri del Cremlino. Con la sensibilità affinata durante i contraddittori repporti con Mosca, egli ha percepito che la politica sovietica stesse un'altra volta ritornando alla consumata formula dei blocchi. «Chi non sta con noi è contro di noi». Una formula che si scontra e cerca di togliere spazio alla strategia jugoslava di non allineamento. A Pechino, invece, Tito ha incontrato un vento di rinnovamento e di aperture, che per la prima volta ha fatto convergere le posizioni di Belgrado e quelle di Pechino. Fra tre mesi potrebbe addirittura succedere il miracolo: cioè che al Congresso della Lega dei comunisti siano presenti i rappresentanti del partito cinese assieme a quelli del pcus. Ora spetta agli Stati Uniti, non ovviamente di mandare una loro delegazione- al congresso comunista jugoslavo, ma di fissare più nettamente i finora piuttosto fluidi giudizi e comportamenti verso Belgrado. Il rapporto bilaterale pregiudica in questo caso i grandi temi internazionali inseriti nell'agenda di Tito e Carter. Il periodo kissingeriano, malgrado tutto l'appoggio dato dagli jugoslavi alla politica della distensione, non fu fra i più felici nei rapporti dei due Paesi. Di tanto in tanto il segretario di Stato Usa rilasciava dichiarazioni sull'importanza della Iugoslavia per la stabilità europea. Dopo le gafjes elettorati, quando aveva inserito, probabilmente per ignoranza in materia, la Iugoslavia nella zona sovietica, pure Carter si corresse dichiarando che «l'amicizia con la Iugoslavia costituisce uno dei fondamenti della politica americana». Quello che urtava gli jugoslavi era però da sempre l'impostazione della stessa politica di Washington. La Iugoslavia, cioè, era trattata o come un'estensione del campo sovietico, magari fluida però sempre sul punto di essere reintegrata, o come possibile oggetto di conquista dell'Occidente. Il non allineamento non fu mai considerato come ura posizione stabile e definitiva. In un momento di black out della sua intuizione, Kissinger era arrivato addirittura a giudicare i non allineati come un gruppo «eversivo» al comando dell'Urss. Di conseguenza, Washington puntava per la Iugoslavia su tre alternative: la pro-sovietica, la pro-occidentale e la jugoslava, dando paradossalmente a quest'ultima, autonoma, meno probabilità e prospettive nei confronti delle prime due. Quando l'alternativa occidentale non trovava terreno da conquistare, Washington si ritirava nella «dottrina Sonnenfeldt»: favoriva la stabilizzazione del dominio sovietico all'Est, per avere meno preoccupazioni nel consolidare l'Occidente. La Jugoslavia, invece, punta tutto su un'unica alternativa, cioè su quella jugoslava, titoista e non allineala. L'unica che può esistere accanto a questa c che può contrastarla per sconvolgerla, risulta egualmente l'alternativa sovietica. Non prendendo in considerazione l'alternativa jugoslava, l'Occidente, e in primo luogo Washington, hanno fatto i! gioco di quella sovietica. Il caso dell'ambasciatore Siiberman fu la prova limite di un simile errore: egli urtò lo stesso Tito scrivendo sui giornali americani come l'autonomia jugoslava non servisse a niente, tanto meno a cambiare il sistema, non trovando fra il pluralismo autogestionario e le autocrazie orientali sostanziali differenze; secondo Silberman pertanto conveniva considerare una volta pej- Jutte la Jugoslavia appartenente al mondo sovietico. Sembra che sia stato Brzezinski ad accorgersi dell'abbaglio. Sta di fatto che uno dei primi ambasciatori revocati fu appunto Silberman. A sostituirlo è stato mandato a Belgrado Eagleberger, che, con realismo, accetta e appoggia l'alternativa autonoma jugoslava. Il nuovo ambasciatore dà un'importanza determinante al Paese balcanico, «come è oggi, con il suo non allineamento e la sua autogestione», per la stabilità europea. Un alto funzionario della Casa Bianca, commentando l'arrivo di Tito, ha voluto vedere ancora più lontano: «Tito, come leader riconosciuto del Terzo Me.do, potrà incidere molto sui rapporti fra Nord e Sud, rapporti destinati a diventare nel giro di cinque anni prioritari per la diplomazia mondiale, scavalcando le questioni della sicurezza fra le stesse due superpotenze». Forse ci si aspetta troppo da una sola visita. Sarà già molto se, invece che essere Tito, visitando la Casa Bianca, a scoprire l'America, questa volta sarà l'America a scoprire la Iugoslavia. Frane Barbieri

Persone citate: Breznev, Brzezinski, James Reston, Kissinger, Silberman, Sonnenfeldt