"Brindiamo alla salute di Stalin" di Livio Zanetti

"Brindiamo alla salute di Stalin""Brindiamo alla salute di Stalin" (Dal nostro corrispondente) Mosca, 4 marzo. Se fosse vissuto, il 21 dicembre scorso Josif Vissarionovich Dzhugasvili, detto Stalin, avrebbe compiuto 98 armi. Quel giorno mi trovavo in una provincia del Sud-Est sovietico, ad Ashkabad, sul confine con la Persia. La Georgia, dove Stalin è nato, sta appena al di là del Mar Caspio. Con un collega americano, passeggiavamo attorno alle bancarelle del mercatino locale colorito d'Oriente, tra i clienti infilati nei lunghi caffettani e gli aromi degli shashlik, gli spiedini di montone alla brace. Durante il nostro curiosare ci trovammo a parlare con tre donne, madre e figlie, niente affatto a disagio di fronte allo straniero d'Occidente, dignitose ma cordiali. Dissero di non essere del luogo; vi si erano trasferite con tutta la famiglia dall'Armenia. Ci invitarono a cena per la sera. La gente del Caucaso è più generosa di Anfitrione. Ci andammo. Stavano in un traballante chalet in mez*o ad un cortile circondato .a un falansterio quadrangolare. Si scusarono per il poco spazio a disposizione: «La città è stata colpita dal terremoto negli anni passati ed ancora non sono state ricostruite case per tutti». Sedemmo in una veranda coperta, il televisore sempre acceso ad un capo e un fornelletto elettrico all'altro. La signora uscì nell'orticello tenuto stretto alla casa da una rete metallica, per rientrare poco dopo con un pollo ruspante al quale aveva già tirato il collo. Si preparò a cucinarlo sul fornello; mentre le figlie cavavano fuori da improvvisate dispense vino, frutta, sottaceti, caviale e sardine, cipolline fresche. Quando la tavola fu imbandita, parlavamo già come vecchie conoscenze. La padrona di casa descriveva con rimpianto la comoda abitazione lasciata ad Erevan. Ma avevano dovuto venire ad Ashkabad perche le fighe potassero trovare posto all'università e continuai e gli studi di medicina e di pedagogia, rispettivamente. Il «numero chiuso» è l'ossessione dei ceti popolari e piccolo-borghesi che cercano la promozione sociale con la conquista del diploma. «Per i figli bisogna fare tutto», diceva. Per le sue, ormai in età di marito, lei aveva già preparato la dote. Con orgoglio ci faceva sfilare sotto gli occhi servizi di vasellame da dodici, biancheria ricamata, oggettini d'oro. Tutto acquistato alla talkuchka, il pittoresco mercato libero della domenica, un misto tra Porta Portese ed un bazar arabo. Due catenine d'oro con le croci appese rappresentavano l'acquisto più vantato. Sì, perché noi siamo cristiani», spiegava la signora allacciandole soddisfatta al collo delle ragazze. Ed anche comunisti? «Si capisce, però quando loro vanno alle riunioni della gioventù del partito, al komsomol, lasciano le croci nel cassetto. Non perché sia proibito portarle, ma ai capi queste cose non piacciono molto». Il marito, appena rientrato dal lavoro, non interviene sull'argomento. E' un uomo un poco oltre la cinquantina, alto, massiccio, sanguigno. Moglie e figlie lo aiutano a togliersi il cappotto, gli portano le pantofole. Lui prende posto a tavola e secondo gli usi dà immediatamente la stura ai brindisi: «Al nostro incontro, all'amicizia tra i popoli... ». Ad un tratto il nostro ospite si alza, prende un tono solenne ed invita ad un ennesimo tost: «Permettetemi, amici, di bere alla salute del compagno Stalin, nel suo novantottesimo compleanno». E butta giù d'un colpo cinquanta grammi di vodka. Incerti, il collega americano ed io ci scambiamo un'occhiata e lo imitiamo. Perché brindiamo a Sta¬ lin? «Perché è stato un grande bolscevico». Che significa ciò per voi? «La famiglia di mia moglie era analfabeta, lei è diventata insegnante. Io non ho potuto studiare, c'era la guerra, sono restato orfano. Ma il partito mi ha insegnato a lavorare. Ho jatto l'operaio, ora sono cuoco e tutti mi cercano. Mia moglie ed io possiamo trovare impiego dovunque e andiamo dovunque ci chiami il partito». Ma le vittime di Stalin? «Voi volete dire di Trotzki, di Bucharin, di Tuchacevskij... Ma quelli non erano bolscevichi. Trotzki, chiaro, era trotzkista, gli altri erano menscevichi, socialdemocratici...». Ne siete sicuro? «Naturalmente». Perciò bisognava fucilarli? «Purtroppo, sì». E gli altri, sono stati milioni, finiti nei campi di lavoro forzato, davanti ai plotoni d'esecuzione? «Bisogna verificare, non si sa e non si sa se lui sapeva, io non ci credo». Kruscev però l'ha detto, voi sapete del XX Congresso e di quello successivo, quello che hanno detto gli stessi Molotov, Kaganovich, Malenkov che a Stalin erano stati più che vicini. «Conosco, il partito cerca la verità e saprà trovarla. Bisogna avere rispetto della storia. Intanto oggi è il compleanno del compagno Stalin e questa è storia». Dalla vodka passammo ai cognac, per gli armeni è un rito. Credete che la nostalgia di Stalin nell'Urss sia grande, che lo stalinismo potrebbe tornare?, domando all'amico moscovita al quale sto raccontando il mio incontro ad Ashkabad. Suo padre e suo fratello maggiore sono morti da qualche parte in Siberia. Non sa bene quando. Li arrestarono di notte, l'uno dopo l'altro, nel novembre 1937. Non li rivide più. I suoi sentimenti sono quelli di milioni di sovietici, generazioni intere dilaniate dal terrore staliniano. Lentamente, scegliendo le parole dice che la politica di classe celata dietro la feroce ma lucida follia di Stalin non è stata ancora studiata a fondo. «Soltanto quando lo avremo fatto potremo dire di sapere davvero perché lo stalinismo fu possibile». Dice ancora: «Ci vorrebbero però i documenti chiusi nelle casse del comitato centrale per comprendere i meccanismi del perverso disegno di trasformazione sociale immaginato da Stalin e dai suoi per impiantare il loro dispotismo assoluto, per mettere al loro servizio la miseria e l'ignoranza, per fare del delitto uno strumento di governo. Ma dirci chi siamo stati come sovietici e come comunisti costa ancora una battaglia e chissà chi sarà a vincerla. Oggi, tuttavia, dovrebbero versare più sangue di allora per farci tornare tanto indietro». Non aggiunge altro. Sollevo lo sguardo e vedo gli occhi del mio interlocutore, occhi di vecclùo, gonfi di lacrime. Livio Zanetti

Luoghi citati: Armenia, Ashkabad, Erevan, Georgia, Mosca, Persia, Siberia, Urss