I polli e i vitelli fanno paura di Giovanni Arpino

I polli e i vitelli fanno paura PARIGI RISCHIA IL SUO PRESTIGIO GASTRONOMICO I polli e i vitelli fanno paura E' ardua e spesso inutile la caccia a un cibo all'antica - In compenso, salgono i prezzi: sei ostriche, diecimila lire - Una professione ambita: il cuoco, che arriva anche a tre milioni il mese, ma sovente se ne va (Dal nostro inviato speciale) Parigi, marzo. La fotografia, a pagina piena, e naturalmente a colori, mostra un contadino che al grido di «lo mangio anch'io!» presenta un pollo. L'immagine è rituale, appartiene a Quel messaggio di «confidenza» che dovrebbe far presa sul consumatore. Il contadino alleva, il contadino vende, il contadino sa cosa mangiare. Ma la sua faccia è ricoperta di bubbo-.. ni sanguinolenti, e altrettanti bubboni ricoprono il pollo. Così un settimanale, che si vanta d'essere «journal bète et móchant», continua la sua battaglia contro le sofisticazioni. La satira se la prende con tutto: con una famosa ditta di posate («il coperto di prestigio che fa nensare agli affamati del Terzo Mondo ») o con un formaggino («grazie a lui riderete della paura nucleare»). Passa dai ministri ai sessuologi ai sindaci alle acque minerali, ma soprattutto si sbizzarrisce contro lo scatolame, contro tutto ciò che è nutrimento «forzato», «accelerato», «spinto», «sterilizzato». E' una lotta contro le formule e contro le parole che cercano di coprire queste formule. I francesi mangiano male e lo sanno, si strilla su titoli a sei colonne lungo i giornali. Provate a visitare un allevamento di vacche, mai piii mangerete vacca, continuano. C'è una Fondazione francese per il cibo che ormai è investita da un uragano di dubbi, interrogativi, diatribe, lamenti pubblici. E questo uragano — nel Paese che ha avuto ed ha il culto della tavola, del buono e gran mangiare — crea ondate funeste. I consumatori vengono accusati di ignoranza, gli istituti di ricerca e di prevenzione vengono sospettati di accordi segreti con le grandi catene produttive, il contadino è oggetto di scherno e di insulti, il cuoco è visto come un negromante che manipola carni immonde, ricette nate da una bieca alchimia. Non v'è giornale o settimanale francese che non si glori di un angoletto dedicato alla cucina e alla buona tavola. Si va a scoprire lo «chef» di Saint-Cyprien-Plage (tra i Pirenei Orientali) perché sulla sua lista si può leggere: nessun prodotto surgelato entra nella confezione dei miei piatti; oppure si va a frugare tra ì piatti di Monsieur Giraudon, che crea intingoli di cervella al limone a Saint-Pourcain-sur-Sioule; o, ancora, ci si affida speranzosi alla tradizione mantenuta da un «bistrot» bordolese, da un ristorantino bretone, praticamente inaccessibili. Ma dietro questa incastellatura critica, che vorrebbe tener alta la fiducia nella cucina (stupenda in provincia, come sempre, in declino pauroso nelle città grandi) il disagio del «francese che mangia e pretende» insorge con furore. Alle nuove Halles, ospitate a Rungis, vicino all'aeroporto d'Orly, le quattrocento tonnellate di pesce che placano le voglie parigine sono costituite da surgelati nordici, svedesi e otan-' desi; quintali di lingua di bue arrivano da Canada e Stati Uniti, beninteso surgelati; i frutti maturano chimicamente secondo sistemi che fanno raccapricciare; le montagne di scatolame si ergono come piramidi, e certo non onorano anime di Faraoni. Il '78, secondo gli istituti di ricerca e le associazioni dei consumatori, dovrà essere «l'anno uno della nutrizione francese». E' un motto, è un proposito, è una sfida. Basta con gli inganni, con la chimica, con i coloranti, con il precotto, con il cibo confezionato. Ciascuno torni al pane e salame, evviva la nostalgia della minestra che la nonna cominciava e preparare alle sette del mattino. E' un programma che — specialmente in questa stagione elettorale, in cui tutti attaccano tutti — trova comprensione presso Giscard e Simon Veil, non è mai escluso dagli articolisti politici, dà ragione agli ecologisti, scatena chi sogna una Francia moderna però capace di «mantenersi degna dell'antico». E' tuttavia fioriscono le ostriche. Febbraio è il loro mese, più parigino che mai. Lungo i «boulevards», i ristoranti hanno riaperto le verande dove gli ostricari avvolti in grembiuloni bianchi o blu governano pile di cesti, chili di crostacei, nugoli dì conchiglie e di valve. Siano o no contrassegnate da «zeri» o «doppi zeri», le ostriche ingolosiscono per tradizione i parigini. Non importa che costino diecimila lire (minimo) ogni sei, i grandi vassoi ghiacciati con i frutti di mare volano nelle sale dei «bistrot», chi può se ne fa una rischiosa scorpacciata, chi non può si accontenta di gustarne almeno tre sul marciapiedi, versando limone e chinandosi per non bagnare il bavero del paltò. Parigi mangia, succhia, rosicchia e s'arrabbia. Il vino del '77 destinato in gran parte all'esportazione (come sempre) è inferiore alle previsioni, solo 52 milioni di ettolitri anziché 55, inoltre è leggero, manca di sostanza. Però aumenta di prezzo, si tratti di Beaujolais o di Bordeaux, dove la produzione è stata inferiore del cinquanta per cento rispetto agli anni passati ma dove il costo è abnorme. Anche il vino — annotano gli esperti — attende il risultato delle elezioni politiche per «scattare» secondo una nuova spirale di franchi. In ogni caso, i nemici della tavola sono due: il pollo e il vitello. Cinquantatré milioni di francesi mangiano pollo e vitello, odiandoli, diffidando, pretendendo protezione. Queste carni «bianche» sono accusate dei più neri peccati: deterioramento del gusto, mancanza di sapore, abusi veterinari compiuti sugli animali. Ma subito ribattono coloro che ne sanno di più: non fate di pollo e vitello le teste di turco della nostra alimentazione, c'è ben di peggio. E i consumatori rinforzano proteste, sdegno, singhiozzi, esigono che una nuova «scienza della salute e dell'informazione alimentare» sorga a sostegno della tradizione e dei tradizionali appetiti francesi. La parola di Cambronne ricorre nei dialoghi della gente, al mercato, e sui fogli satirici. Dov'erano le vecchie Halles, i negozietti rimasti ricordano i trionfi dell'opulenza gastronomica francese, ma le vetrine sono colme di prodotti prefabbricati, le macellerie diventano antri ove nascondere corpi di mammuth in attesa del cliente ingenuo, le salse in barattolo indignano il buongustaio, la voga della pizza veloce umilia la sacralità della tavola. Si moltiplicano i ristoranti cinesi, indonesiani, vietna miti, arabi, la smania del «piatto unico» distrugge i ricordi degli antichi «menu» è più facile trovare un «couscous » o un piatto di spaghetti stracotti che non un elaborato e profumato intru glio di trippe alla parigina o alla perigordina. E del resto un cuoco appena decente può pretendere oltre un milione e mezzo mensile di stipendio, se è di prima catego ria arriva ai tre milioni. In ogni caso, ha il diritto di arrabbiarsi, non lavora oltre le nove di sera, se gli capita la scarica nervosa sbatte lì la richiesta di una «omelette» e parte per la Costa Azzurra o per New York, insultando tutti. Pare che a Parigi capiti secondo una media di sei-sette cuochi al giorno. C'è un angolo parigino che vale come emblema per questa crisi del gusto, della cucina, del prodotto celeberrimo, della tradizione colpita a morte. E' il negozio di «Fauchon», vicino alla Madeteine. Era una straordinaria dispensa per la qualità, la quantità, la rarità dei cibi. L'ultimo dei commessi pareva il primo dei dentisti, per come si muoveva, per il camice, il sorriso, le guance immacolate. L'ultimo dei valletti era il primo d'un «college» inglese, per rapidità di atti, gentilezza, silenzio, attenzione. Dna bomba ha fatto esplodere «Fauchon», tempio senza eguali a Parigi, qualche mese fa. I muri anneriti emergono da una stecconata che protegge i lavori di ristrutturazione. La protesta al tritolo ha distrutto un angolo senza ricavarne nulla. Rimane un settore del grande negozio, dove ragazze puntigliose e brave vendono dolci: il profumo della pasticceria inonda il marciapiedi. E' chiaro che la morte di «Fauchon» (era stupendo anche solo da vedere, da passeggiarvi tra colonne di cibi e preziosità) pretende resurrezione, Parigi conosce benissimo queste altalene della storia e del crimine. Ma è pur sempre un fatto esemplare: non si è sparato su una creatura, ma su una «cosa». Mi trasloco a piedi, nel gelo, dalla Madeleine fino al «Café de la Paix», ormai preda degli sceicchi. Quand'era francese, un ometto in costume turco serviva caffè ai tavolini. Oggi, è scomparso: anche questo è un minimo dato esemplare. I giornali della sera impazzano con interviste a Mitterrand, che recita come ogni francese sa recitare, anche mentre dorme. Mangerò una bistecchina con patate, berrò una birra, mi verrà data poi una fetta di torta di mele. Il tutto per ventiduemila lire senza mancia. Le ragazze che ruotano in grembiule nero attorno ai tavoli sono severissime, sorridenti ma implacabili. Mangia e vai, hanno scritto sulla crema che gli tinge le guance. Mangio e vado. Mi viene un magone parigino tipico. Forse scriverò una lettera all'Inserm oppure al Sofres, sigle che radunano ghenghe preposte alla tutela della salute e ai sondaggi dei consumatori. Parigi valeva bene una messa. Peccato che oggi non valga almeno una trippa. Giovanni Arpino Parigi. Uno "chef" tradizionale: ma oggi i ghiottoni si lamentano (foto G. Neri)

Persone citate: Cyprien, Faraoni, Mitterrand, Simon Veil