Un solo imputato al processo per la strage nel carcere

Un solo imputato al processo per la strage nel carcere Alessandria - Tragedia che si doveva evitare Un solo imputato al processo per la strage nel carcere Alessandria, 12 febbraio. Nell'aula della corte d'assise di Genova si consumerà nei prossimi giorni l'ultimo atto di una tragedia che sconvolse l'Italia e che forse si poteva evitare: la strage al reclusorio di Alessandria, avvenuta il 9 e 10 maggio 1974. Vi persero la vita cinque innocenti, numerosi altri furono feriti e morirono due dei tre detenuti che avevano tentato, inutilmente, di evadere. Il superstite, Everardo Levrero, un ligure oggi di 32 anni, viene processato martedì e pagherà anche per i complici: non ha ammazzato alcuno degli ostaggi (tra l'altro era armato solo di coltello), ma risponde penalmente di concorso in omicidio volontario continuato e aggravato, sequestro di persona, tentata evasione, minacce continuate a pubblico ufficiale e detenzione d'arma. Rischia, sebbene nella drammatica vicenda abbia avuto una parte marginale, l'ergastolo. Ma che venga o meno condannato a vita non importa certo alle famiglie delle vittime o a chi, come l'ing. Vincenzo Rossi o il carabiniere Antonio Maggio, due dei molti ostaggi scampati alla strage, tanto hanno sofferto. Feriti da pallottole «dum dum», si ristabilirono dopo molto tempo. Proprio ieri la vedova del brigadiere Gennaro Cantiello, la guardia carceraria assassinata con il commilitone Sebastiano Gaeta, l'assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, il medico del reclusorio dott. Roberto Gandolfi e l'insegnante prof. Pier Luigi Campi, mi diceva che di Levrero non le importa nulla. «Tanto mio marito non torna in vita — ha soggiunto —, non so neppure perché devo andare a testimoniare al processo. Di quel tragico giorno non so nulla e dopo tanto tempo mi si costringe solo a rivangare un grosso dolore. Nessuno mi ha risarcito, per fortuna il comune mi ha trovato un lavoro e posso provvedere ai miei figli». Stranamente, invece, nessuno ha pensato di citare me, che quei due allucinanti giorni li ho vissuti e sofferti minuto per minuto assistendo agli attacchi delle forze dell'ordine che fin da allora mi parvero quantomeno poco razionali come, tanto per citare un esempio di poco conto ma pur sempre significativo, mi sembrò irrazionale l'aver spinto nell'infermeria del carcere, ove detenuti e ostaggi erano asserragliati e ove già erano stati lanciati gas lacrimogeni, i cani poliziotto. Avrebbero dovuto bloccare i rivoltosi, invece, impazziti come era logico poiché non potevano coprirsi la bocca come gli uomini con un fazzoletto, scapparono terrorizzati. Né, stranamente, sono stati citati i colleghi Franco Marchiaro e Giuseppe Zerbino, che con me condivisero tanta angoscia e tanta amarezza e come me non poterono aiutare gli ostaggi che pure ci avevano supplicato Dio solo sa se non l'avremmo fatto, ma ci fu vietato, come fu vietato ad un magistrato alessandrino che cercò solo di salvare vite umane e si ebbe quasi una nota di demerito. Ma di cose «strane» ne accaddero in quei due drammatici giorni. L'allora procuratore generale Reviglio della Veneria, giunto da Torino con il generale dei carabinieri Della Chiesa per dirigere le operazioni, in un'intervista rilasciata all'attuale sindaco di Torino Diego Novelli., allora giornalista, e pubblicata sulla rivista «Nuova Società», disse che «non si poteva scendere a patti con tre banditi i quali pretendevano tutto senza offrire garanzie per l'incolumità delle loro vittime e che se lo Stato avesse ceduto, fatti del genere si sarebbero ripetuti a macchia d'olio e ogni detenuto avrebbe saputo che bastava sequestrare un ostaggio per ottenere la libertà». In effetti, situazioni analoghe si sono verificate dopo d'allora in carceri italiane e anche estere, ma ovunque si sono salvati gli ostaggi. Lo Stato non doveva fare una figuraccia, d'accordo, ma, disse allora un parlamentare alessandrino democristiano, la figuraccia «l'aveva comunque fatta quando non impedì che le armi fossero contrabbandate nel carcere». E l'istruttoria penale protrattasi per quasi quattro anni — fosse stata svolta dai magistrati alessandrini sarebbero bastati quattro mesi — non è riuscita a stabilire chi le armi procurò a Cesare Concu, Domenico Di Bona, i due detenuti ideatori della rivolta nella quale perirono, falciato dai carabinieri il primo, suicida il secondo, dopo aver mantenuto la promessa di uccidere gli ostaggi se le richieste di libertà non fossero state accolte. Quattro anni di indagini per mandare a giudizio soltanto Everardo Levrero, che alla seconda irruzione delle forze dell'ordine si arrese tremando e invocando pietà, senza sciogliere i molti dubbi, tanti angosciosi interrogativi, senza in sostanza che si possa fare veramente giustizia. In questo lungo periodo di tempo è anche morto il direttore del reclusorio dott. Federico Sarlo, mentre tante polemiche si sono sopite se non il dolore, la rabbia, di chi come me ancora oggi ripete che la strage poteva essere evitata. Perché si agì con tanta precipitazione? Tutta la storia dei sequestri dimostra che l'autorità ha interesse a protrarre più a lungo possibile le trattative. In questo modo si riesce spesso a indebolire la volontà dei rivoltosi, studiare il loro comportamento, mettere a punto una soluzione che salvi la vita degli ostaggi. Ad Alessandria, invece, le autorità caricarono a testa bassa come un toro inferocito. Si affermò allora che così si doveva fare perché i tre rivoltosi erano dei sanguinari ì quali, da un momento all'altro, potevano ammazzare tutti e che Cesare Concu era uno schizofrenico con il quale non si poteva ragionare. In tutta questa tragica vicenda chi ha saputo comportarsi con estrema dignità sono stati i familiari delle vittime. Meritano un doveroso omaggio. Emma Camagna Quel giorno davanti al carcere di A Alessandria

Luoghi citati: Alessandria, Genova, Italia, Torino