Insomma "Match,, è finito dove avrebbe potuto cominciare

Insomma "Match,, è finito dove avrebbe potuto cominciare Lo "scontro,, fra architetti nella rubrica di Arbasino Insomma "Match,, è finito dove avrebbe potuto cominciare « Match » ha chiuso in bellezza. L'incontro tra due « illustri » architetti. Portoghesi e Benevolo, si è svolto con elegante «fair play»: anche se ostinato, sornione più che malizioso. La classe dei contendenti ha rischiato di eclissare l'arbitro, un Arbasino insolitamente emozionato, tutt'altro che divertito. Nell'uso colloquiale « match » è riservato alla sola boxe, uno sport pesante, malgrado intenzionale nobiltà. Su angliche labbra, « match » 6 amabile, cavalleresco contrasto: detto di persona, significa addirittura « compagno ». Il solo con cui ci si possa convenientemente misurare, appaiare. Giustamente, dunque, è mancata la rissa, ma anche la ostentata ipocrisia, che caratterizzava i precedenti «rounds». E' mancata la esibizione, ogni teatrale atteggiamento. Si sono confrontate, ad armi supposte pari, due concezioni dell'architettura, apparentemente inconciliabili. Da una parte la sfida utopica di Benevolo, che demolirebbe (in un solo decennio, asserisce) la sequela di sconci inflitti alla Capitale unitaria, da pianificatori buzzurri, poi fascisti, infine burocrati corrotti. Vendicherebbe il nuovo « Sacco di Roma » con distruzione integrale, lunaticamente liberatoria. Dall'altra un allibito Portoghesi, impregnato di storia, affascinato dalla « memoria collettiva », cui appartengono purtroppo sconci, riparatorie brutture, ma anche insospettati « exploits ». Consapevolmente rassegnato ad una vicenda che non è soltanto urbanistica, ma eloquente espressione di una disordinata storia. La chirurgia radicale, soprattutto se plastica, gli appare autoritaria, e perciò spesso allucinante: non meno delle devastazioni, di cui si arroga il risanamento. Non escogitazioni da laboratorio, né rancorosc crociate ripagheranno, ma un ripensare, reinventare insieme la città. Una « partecipazione », si è malignamente dibattuto, che sembra mancata nel suo mirifico progetto per la Moschea di Roma. Non per sua colpa, ha serenamente confermato Portoghesi, solo uno dei progettisti in gara: giudicato il migliore. Il confronto, malgrado le dissimulate tensioni, ha tolto spazio allo spettacolo. Di eccentrico non v'erano né parole, né gesti, né abbigliamenti: soltanto gli occhiali di Benevolo si imponevano, per una involontaria ma cattivante iperbole. « Match » si è trasformato in una aristocratica, e tuttavia intellegibile contesa. Ha lasciato nello spettatore non immagini, né stravaganti ricordi: ma idee, salutari inquietudini. Lo sfacelo di Roma è emblematico, ogni città d'Italia si può dire lo condivida. Il fortunoso ciclo di trasmissioni è finito, proprio dove avrebbe potuto cominciare. Ha final¬ mente realizzato di non rivolgersi a domenicali turbe, ma a cittadini sicuramente disponibili, altrettanto innumerevoli. Le dicci puntate sono nate sotto un segno dichiaratamente circense. Più che i temi, ne confermano le scelte dei cosiddetti « protagonisti ». Le coppie Albcrtazzi-Perlini, Borboni-Kustermann, Pampanini-Asti, per la stessa natura del contendere, sono scadute nel plateale. Malgrado la baluginante renitenza delle giovani attrici: né è mancata la femminile ostentazione di un arto, un tempo polposo. Si è deliberatamente giocato sul contrasto generazionale, sopravvalutandone la potenziale dialettica. Monicelli-Moretti, a dispetto dei decenni, non avevano assolutamente nulla da dirsi: Cameade era forse più conosciuto dell'impunito giovanotto. Non molto da confrontare aveva la coppia AgnelliRavera: ha sviluppato una sottile connivenza, tipicamente femminile. Se la Rai non è bugiarda, undici milioni di spettatori hanno presenziato al domestico incontro. Stefanini-Dei Favero (con contorno di personaggi, dichiaratisi afflitti da disturbi caudali) hanno sconcertato. Non per la tematica, più che rovente, ma per le assurdità caratteriali. L'ami-medicina appare senza dubbio un'astrazione, lievemente allucinata: soprattutto nei confronti di corpulenti vicari di Ippocratc. Questi, accusati di ingordigia, respingono l'etichetta di apostolo, rivendicano (per sé) i diritti dell'uomo qualunque, addirittura del «poveruomo». L'ammalato resta solo un oggetto, fonte di potenza e di ricchezza. Un singolare rifiuto di battersi, malgrado vecchie e recenti ruggini, ideologiche quando non politiche, hanno sostanzialmente opposto gli uomini di penna: per definizione ringhiosi, vendicativi, aspri. Il teleschermo, e dieci milioni di spettatori, li hanno evidentemente indotti alla cautela, alla schermaglia inelegante, a fumose complicità, riguardose improntitudini. Gli acidi umori di un Montanelli, di un Bocca, di un Sanguincti, di Moravia, dello stesso Forte, per non dire dell'evangelico Prodi, si sono dissolti: sorprendentemente sublimati, in effluvi di incenso. Salvo l'ultimo « round », ci è stata in genere ammannita una miscela, composta di sceneggiate e di sconnesse informazioni. Un prodotto non casuale: sarebbe già difficile, del resto, la confezione accurata, responsabile di umoristici, se non satirici « sketch ». Non meno problematica risulta l'organizzazione di autentici confronti culturali. C'è da sospettare una strategia divagante, cui di consueto sembra affidarsi un Ente, tuttavia di Stato. Benedetto Marzutlo

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