Sono sopravvissuto al lager Aversa di Liliana Madeo

Sono sopravvissuto al lager Aversa PARLA UN EX INTERNATO DEL MANICOMIO CRIMINALE Sono sopravvissuto al lager Aversa Paolo Trivini, che con altri si è costituito parte civile contro il direttore dell'istituto, racconta: "Cercavo di non farmi schiacciare, passavo il tempo a contare: non volevo diventare un irrecuperabile come i miei compagni" - Adesso è libero, si è sposato Il 18 febbraio il prof. Domenico Ragozzino, direttore del manicomio criminale di Aversa, sarà interrogato dai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Deve rispondere di maltrattamenti e altri reati, ai danni dei degenti ricoverati nell'istituto. A suo carico sono in corso altri tre procedimenti penali, uno sulle sue responsabilità in merito a 40 casi di morti « sospette » fra i degenti, Le perizie, disposte un anno fa, non sono ancora state espletate. Questi processi hanno come principale imputato Ragozzino. Ma l'obiettivo delle forze democratiche è quello di giungere a una mobilitazione generale che si traduca nella chiusura di questi istituti e nella trasformazione della normativa vigente in materia. Nel '75 un gruppo di senatori della sinistra indipendente avevano presentato un progetto di legge per la soppressione degli ospedali psichiatrici giudiziari. La loro esistenza la prevedeva già il codice Zanardelli, precedente al fascismo, ma la semi-in fermità non comportava la doppia sanzione (pena e misura di sicurezza). Con la riforma Rocco del 1931 fu introdotto il doppio binario per il semi-infermo e la misura di sicurezza del manicomio giudiziario per il « totalmente infermo ». Passato il fascismo, nulla è cambiato. Da una ricerca svolta all'istituto di Montelupo Fiorentino, si ricava che un uomo condannato a 4 anni per furto ne ha già scontati 16 in manicomio; un altro, invece dei 6 anni inflittigli per truffa, è dentro da 23 armi; e la lista prosegue di questo passo, citando 15 casi. Quale effettiva funzione di assistenza e cura è svolta in queste istituzioni? Gli ultimi dati disponibili (1974) forniscono questo quadro: 2410 ricoverati nei 6 manicomi giudiziari italiani; 35 medici, 29 infermieri, 580 agenti di custodia. La struttura è identica al carcere: cancelli, sbarre, sentinelle armate, agenti in divisa, buglioli, strumenti di coercizione. Nel '74 371 internati erano rinchiusi in violazione dello stesso codice Rocco, e cioè in « osservazione psichiatrica ». I. m. Roma, 5 febbraio. «Io di vedere un giorno Ragozzino in tribunale non ci avrei mai sperato» dice Paolo Trivini, passandosi una mano fra i capelli. E' uno degli ex internati nel manicomio criminale di Aversa, costituitosi parte civile nel processo contro il direttore dell'istituto e i tre agenti di custodia rinviati a giudizio per maltrattamenti e altri reati ancora. E' lui, anzi, che per primo fece uscire dal manicomio-lager la denuncia dell'abbrutimento, delle violenze subite, delle prevaricazioni abituali, del clima di violenza stabilito dalle guardie e ] mantenuto dagli internati \ più «forti», dei ricatti, dell'uso indiscriminato dei letti di contenzione, della pulizia sommaria, delle cimici che divoravano il corpo dei degenti legati, della scabbia che tormentava tutti, delle iniezioni - vaccino contro il colera che la guardia Cardino faceva agli internati intingendo — ogni venti o trenta pazienti — l'ago della siringa nella cicca della sigaretta, delle «corse» per conquistarsi il pezzo di pane più grosso, della fame patita, dei gesti sadici di cui rimanevano vittima i più giovani e quelli psichicamente più labili, del dilagante ricatto omosessualeOggi ha 31 anni, è libero, si è sposato, fra alcuni mesi diventerà padre. «Sono diventato un uomo, prima ero un automa — dice —. L'unica cosa che mi ha sempre sostenuto, e che forse mi ha salvato, è stata una gran voglia di vivere, di non farmi schiacciare. Quando ero ad Aversa, passavo il tempo a contare, o mi facevo le domandine su quello che avevo studiato a scuola. Tentavo di tenermi in esercizio. Cercavo così di dirmi che il manicomio non avrebbe fatto di me uno di quegli infelici irrecuperabili che erano i miei compagni». In brefotrofio Tutta la sua vita è il paradigma del «diverso», che la società crea e stigmatizza, e definisce nelle modalità irregolari, per poterlo poi definitivamente emarginare e meglio controllare. A sei mesi è finito in brefotrofio. Praticamente — fino a poco tempo fa — ha trascorso i suoi anni fra collegi, riformatori, carcere, con la parentesi dei mesi ad Aversa a cavallo fra il 72 e il 73. «La cosa che ho desiderato di più nella mia vita è stata una famiglia, essere amato — racconta —. Ricordo l'invidia terribile che mi dava vedere gli altri bambini portati per mano dalla mamma. Ricordo il risentimento che, poi, provocava in me incontrare una coppia di giovani, dall'aria innamorata. La prima ragazza che ho avuto, stava nel mio stesso collegio, reparto femminile. Ci incontravamo di nascosto. Avevamo un rapporto tutto d'istinto, brutto, senza capire niente l'uno dell'altro. Quando le suore ci sorprendevano, erano punizioni terribili per tutti e due. Io non capivo. E cresceva in me la furia, la rabbia. Ci ho messo anni per dimenticarla. Mi sembrava che fosse mia, che non potesse esistere nessun altro tipo di rapporto con nessun'altra donna. Anni fa, in un periodo che ero libero, andai in motocicletta a cercarla, fino a Savona dove era andata ad abitare. Era sposata e con due figli. Allora mi rassegnai e lasciai perdere. Poi ho capito che esisteva un altro modo di voler bene a una donna, un modo non possessivo e violento». Quella tromba Negli istituti per l'infanzia povera e abbandonata, frequenta appena le scuole elementari. «Nei primi anni andava ancora bene. Stavo in campagna. Se ci fossi rimasto, a contatto con la natura, forse non mi sarei incattivito. Invece mi hanno mandato poi in quei casermoni di cemento, freddi, tristi. E tutti gli ordini mi erano intollerabili, per tutti ero un vero ribelle. L'etichetta di ladro me la diedero a cinque anni. C'era una suora che sotto il letto teneva una scatola con dentro tutti i tesori che potevo immaginare: palloncini, biscotti, cioccolatini, pezzi di carta stagnola, una tromba. Una notte aspettai che la suora si addormentasse. Corsi a prendere la tromba e mi misi a suonarla subito, nella stanza stessa. Fu il finimondo». Ride, non compiaciuto, ma intenerito su se stesso, allora all'inizio di quella catena di errori che avrebbe in seguito commesso e su cui avrebbe via via incanalato le sue ribellioni e l'ansia di «andare contro». Spiega: «Non mi è stato insegnato niente. Solo la rassegnazione mi veniva inculca¬ ta. E sempre ho saputo che non avrei potuto fare niente di buono, che niente di positivo la società mi avrebbe mai offerto. Io reagivo con menefreghismo. Mi difendevo dalle persone che non mi amavano e che avevo vicino, dalla mancanza di soldi, dalla sicurezza che nessun lavoro mi sarebbe mai stato dato, dal fatto che le donne subito mi lasciavano, mi difendevo dicendomi: che cosa importa, chi se ne frega? E così tiravo avanti. Mi sembrava di essere un forte. Ero soltanto disperato. Soltanto dopo ho capito che in realtà ci tenevo moltissimo ad avere una donna, un lavoro, degli amici, delle persone che mi rispettano e credono in me. Prima era distruttivo perché non credevo di poter costruire qualcosa. Poi ho capito che soltanto io potevo creare la mia vita, che la società invece — se non reagivo — voleva ridurmi ladro, solo, emarginato, senza speranza, individualista». La sua carriera di «malvivente» è costellata di piccoli episodi: furti, macchine scassate per una radiolina, compagni di strada balordi, ricettazione di piccolo calibro. Va e viene dal carcere. E' a Regina Coeli nella notte dell'estate 72, quando c'è il famoso pestaggio dei detenuti su cui la magistratura sta ancora indagando. Viene picchiato tanto da avere un nervo ottico leso e da riportare un abbassamento dell'udito. Era dentro per furto. Viene mandato in osservazione ad Aversa. Lì l'esperienza più sconvolgente mai fatta, e il contatto con un gruppo di avvocati che s'interessavano alle condizioni dei reclusi nei manicomi criminali, lettere, un primo memoriale che riesce a far uscire, le foto e il filmino che riesce a girare — è stato accluso agli atti del processo — con le macchine entrate clandestinamente. Nessuno si accorge di quanto egli sta facendo. Il «caso» scoppierà soltanto più tardi, quando, oltre alla sua, altre testimonianze saranno raccolte. Nel 73 viene tradotto a Roma per un processo per guida sema patente. Gli avvocati ■ amici riescono finalmente a parlargli, riescono a non farlo più ritornare al manicomio. Sono questi avvocati-amici che lo seguono negli anni successivi e, una volta tornato in libertà, gli sono vicini nel difficile momento del reinserimento, lo fanno affiancare da uro psicologo, gli trovano un lavoro. Con la moglie «Mi hanno dato fiducia e coraggio. Mi hanno fatto crescere. Sono stato fortunato» egli dice. E' orgoglioso del tipo di vita che è riuscito a costruirsi. Fa il magazziniere, «un posto di fiducia, con persone alle mie dipendenze». Abita in un paesino nella campagna romana. La moglie lo aspetta a casa. Praticamente si vedono solo la sera, a cena, poi lui va al bar a giocare con gli amici. Elenca, con orgoglio, tutti i connotati della sua «normalità», cucita insieme tanto faticosamente, e mutuata dai modelli di una società piccoloborghese che gli è stata proposta come miraggio: «La donna deve stare a casa, a me piace così. E mia moglie è una ragazzotta di campagna, alla buona. Mi aspetti davanti al televisore, lavora a maglia. Io le dò un bacetto, le porto una pastarella, le faccio le moine. Lei è severa. Mi chiede: "Oggi hai litigato con qualcuno?". Io vorrei la macchina, ora, perché impiego ore per arrivare al posto di lavoro. Ma lei mi sgrida: "C'è prima il bambino a cui devi pensare, dobbiamo risparmiare". Io sono contento che sia così». Liliana Madeo

Persone citate: Domenico Ragozzino, Paolo Trivini, Ragozzino, Zanardelli

Luoghi citati: Aversa, Roma, Santa Maria Capua Vetere, Savona