L'Italia è un Paese "invivibile"? di Nicola Adelfi

L'Italia è un Paese "invivibile"? IL PESSIMISMO È D'OBBLIGO, MA NON ESAGERIAMO L'Italia è un Paese "invivibile"? Il nostro è per davvero un Paese ingovernabile? Basta sfogliare un giornale qualsiasi in un giorno qualunque per non avere esitazioni al riguardo. Sì, il nostro paese è come una zattera alla deriva, con ciurme mai stanche di azzuffarsi, senza più timoniere, con passeggeri esasperati, confusi, rassegnati. Dunque siamo ben certi, il nostro è un paese condannato prima all'anarchia e poi a un regime dispotico? Dovunque vada, lamentazioni e invettive non hanno che questa unica direzione. Un coro unanime. Vi partecipano persone colte e incolte, osservatori italiani e stranieri. Già anni fa Pasolini aveva trovato un aggettivo per definire l'estrema degenerazione del vivere in Italia: un paese «invivibile», diceva, un paese cioè dove non è più possibile vivere. Sta di fatto che molti, specie tra i ricchi, hanno fatto il segno della croce sull'Italia, come se fosse defunta, e vivono in paesi stranieri con i miliardi trasferiti negli anni scorsi oppure avviando nuove imprese. Lo stesso fanno molti in possesso di una valida preparazione scientifica o tecnica. In mancanza di meglio, alcuni accettano lavori faticosi in contrade primitive, desolate. «Che c'è dietro l'angolo?», ormai è solo una battuta agrodolce. Si sa benissimo che c'è: crisi di governo, criminalità politica e comune, l'inflazione, l'incubo della disoccupazione, la corruzione, scioperi branditi da tribù corporative e rese selvagge dall'impunità. Un elenco senza mai fine di indizi che la zaitera è lì lì per capovolgersi, sommergere e affondare una nazione intera. Tra le previsioni sul futuro prossimo viene formulata persino quella che l'Italia torni divisa più o meno come prima dell'Unità. Adesso non sono esponenti altoatesini i soli a minacciare di separarsi dal resto dell'Italia. Andate a parlare con i siciliani: ne troverete molti nel ceto medio-alto che vi danno per certa la separazione politica della Sicilia nel caso, visto sempre più probabile e imminente, di uno scatafascio generale. Gli stessi propositi potete udire nella Sardegna. E tra i settentrionali aumenta il numero di coloro che sognano di fare del Po una linea di confine severamente chiusa ai meridionali. Tuttavia siamo proprio sicuri che i quattro cavalieri dell'Apocalisse stanno spronando i cavalli tenendo gli occhi fissi sul nostro paese? Non so che rispondere. Posso solo dire che non me la sento di rinunciare a una convinzione che annovero tra le poche mie certezze assolute. E' questa: il futuro non è mai prevedibile. E' una convinzione che, quanto meno, aiuta a vivere e a lottare anche nelle situazioni peggiori. Finché c'è vita, c'è speranza; dicevano i nostri vecchi. Non è mai così buio come prima dell'alba, dice un proverbio inglese. E non credo che il mio modo di pensare sia ottuso da un ottimismo candido, ingenuo, diciamo volterriano. Se mi volto a guardare indietro, constato che le prognosi catastrofiche che si fanno oggi sullo stato di salute dell'Italia sono le stesse, precise, identiche che si facevano uno, due o dieci anni fa. Una recente copertina di Time colloca «l'Italia nel caos». Anni fa un'analoga copertina collocava «L'Italia nell'agonia». Vivaddio, siamo ancora vivi: e non penso che fu la potenza dei nostri scongiuri a evitare che dopo l'agonia arrivasse la morte. Se guardiamo ora le copertine di settimanali italiani, vi leggiamo fra truci immagini l'affermazione categorica che in Italia è scoppiata la guerra civile. Però ecco qui una copertina dell'Espresso datata 31 ottobre 1976: «L'Italia diventa il Cile? Inflazione — blocco dei treni — panico in banca — buste paga vuote — rivolte in piazza — revanscismo di estrema destra». E Panorama poco meno di un anno fa gridava da una copertina: «Terrorismo - Siamo al Sudamerica?». E non parliamo degli uomini politici. Una dozzina di anni fa Pietro Nenni diceva con rabbiosa convinzione che «così non si può più andare avanti». Eravamo allora la settima potenza industriale nel mondo. Però lo siamo anche adesso. Più remoto, quasi oggetto di antiquariato, è il pessimismo di Ugo La Malfa: a dargli retta, la penisola italiana da anni, da molti anni, dovrebbe trovarsi spostata nelle regioni dell'Africa nera oppure nelle vicinanze dell'Afghanistan o del Bangladesh. E invece eccoci ancora qui, nel mezzo del Mediterraneo, sempre attaccati all'Occidente, e con un partito comunista che ora scopre la sua vocazione a volere un'Italia occiden¬ tale, leale verso l'Alleanza Atlantica, sempre più inserita nel mercato comune degli europei. E casca di maie in peggio chi cerca di raccapezzarsi tra le previsioni avanzate dagli economisti. Ciascuno dice la sua, ed è difficile trovarne due che siano d'accordo. «Scienza grigia» è chiamata l'economia, e ora più che mai in Italia ha il grigiore di una brutta giornata di nebbia, quando non si vede a un palmo dal naso. Un anno fa si dava per sicuro che l'inflazione avrebbe raggiunto nel 1977 una velocità del 30 per cento, e invece è stata forse meno della metà. Sempre un anno fa le riserve di valuta pregiata erano ridotte ai lumicino e non si dubitava che presto, prestissimo, si sarebbero esaurite completamente: ma ora quelle riserve sono aumentate di otto volte rispetto al 1976. E ancora: un anno fa il passivo della bilancia dei pagamenti con l'estero dal trotto era passato al galoppo, e si prevedeva che presto, prestissimo il carro Italia, così sgangherato e senza più freni, sarebbe andato a fracassarsi in un precipizio. E però, beffandosi di ogni più stringato ragionamento preventivo, il 1977 ha visto quella bilancia dei pagamenti cancellare le- sto lesto il passivo e registrare un saldo attivo. A questo punto, sia ben chiaro: non ho affatto l'intenzione di asserire che ora stiamo meglio di un anno fa, ma solo avvalorare con pochi esempi la mia convinzione di cui dicevo prima, e cioè che il futuro non è mai prevedibile. Vorrei aggiungere che dobbiamo essere molto cauti anche nel giudicare ingovernabile il nostro paese. Certe volte mi accade di pensare tutto il contrario. Ci arrivano tra capo e collo terribili stangate fiscali? Ebbene, ci mettiamo a strillare, ci mangiamo il fegato, ma più di tanto non facciamo. Ci impongono di pagare la benzina 500 lire? Sul momen to sbraitiamo, ma presto ci facciamo l'abitudine. Invece degli aumenti della scala mobile ci danno illusori pezzi di carta? Non andiamo più in là di un moto di stizza. Nei negozi al posto di denaro spiccio ci danno caramelle, e noi tutti buoni, tutti zitti. Magari vorremmo sapere dove va a finire tutto il denaro che ci viene tolto da ingorde mani pubbliche e private, ma le nostre sono domande retoriche, domande cioè che sappiamo resteranno a vagare vanamente nell'aria. Tutto sommato, siamo un paese ingovernabile o al contrario un paese paziente, un paese che finisce con l'accettare anche molte imposizioni non giuste e perfino le angherie più impertinenti? E concludo. Nonostante le apparenze, il nostro paese, considerato nel suo insieme e in un lungo ciclo di anni, è un paese che si lascia governare abbastanza agevolmente; e che anche quando è governato male riesce sorprendentemente a reggersi a galla, persino a navigare verso mari meno tempestosi. E se dal generale scendo nel particolare, tre sono le norme di vita che vorrei raccomandare a chi ha voglia di ascoltarmi. Primo: tenersi in uno stato permanente di vigile allarme perché molti | sono i pericoli che ci insidiano, ma non lasciarsi mai inquinare il cervello da chi trova un suo lucro o piacere nello spacciare allarmismi e cieco panico. Se. condo: non fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Terzo: fai quel che devi, avvenga quel che può. Nicola Adelfi

Persone citate: Pasolini, Pietro Nenni, Ugo La Malfa