L'opera è morta? di Massimo Mila

L'opera è morta? L'opera è morta? (Storia e storicità del teatro in musica) Sono poco più di dieci anni che Pierre Boulez metteva a rumore il mondo musicale con una intervista rilasciata al settimanale amburghese Der Spicgcl (25 settembre 1967), nella quale si suggeriva di far saltare in aria i teatri d'opera. In tedesco, poi, la dinamitarda proposta che costituiva il titolo del brillante articolo, suonava con maggiore efficacia: «Sprengt die Opernhauser in die Luft!». D'accordo, l'argomento di Boulez era la sua convinzione che dopo Berg non si sia più scritta un'opera teatrale valida, e che uno dei motivi di questa magra sia l'inidoneità dei vecchi edifici teatrali ad eventuali concezioni moderne nel campo operistico. Donde il suddetto suggerimento, avanzato in forma paradossale, come la soluzione «più elegante», anche se forse «la più costosa». Ma interrogato sulle sue predilezioni nell'opera tradizionale rispondeva che, oltre al Parsifal, ch'egli aveva diretto recentemente a Bayreuth, lo interessavano soltanto un paio d'altre opere wagneriane, Mozart, Mussorgsky e Debussy. «Se qualcuno mi proponesse di dirigere La forza del destino, me ne andrei a spasso». Che Boulez esternasse queste opinioni non era poi tanto strano. Più curioso era il consenso che incontravano. Perfino Opera, la rivista inglese di Lord Harewood, che è il santuario del teatro lirico tradizionale, si vestiva a lutto per ammettere, in due puntate d'intervista del suo direttore col temibile musicista (novembre e dicembre 1969), che, si, il tempo dell'opera era proprio finito. «L'opera è morta» era un argomento pacifico durante gli Anni Sessanta, non solo nelle tirate polemiche dei compositori d'avanguardia, ma anche nelle più futili conversazioni salottiere. Sarebbe difficile trovare, in qualsiasi campo e disciplina, un rovesciamento d'opinione più rapido e totale di quello avvenuto su questo punto nel giro di dieci anni. I teatri d'opera sono pieni zeppi, e la gente protesta per la difficoltà di trovare i biglietti. Il numero medio di rappresentazioni d'ogni opera in cartellone è passato, nelle grandi città, dalla faticata mezza dozzina d'allora a quattordici o quindici per le opere di repertorio, sei o sette restando il numero minimo di rappresentazioni per le deprecate opere moderne, che allora faticavano a racimolare un po' di pubblico per il minimo decente di tre rappresentazioni. Un «golden boy» da salotto mondano si squalificherebbe se sentenziasse, crollando il capo gravemente, che «l'opeva è movta». I letterati più squisiti scoprono l'opera, possibilmente la più tradizionale e la più becera possibile, con entusiasmo da sartine. E può essere significativo che nel recente libro-intervista con Célestin Deliège Par volontà et par basarti (cfr. «Boulez il saggio», La Slampa 1° novembre 1977), lo stesso Boulez, manifestando il proprio fastidio per «l'eccesso di memoria» che affligge la nastra civiltà musicale e auspicando un'azione di «guardie rosse per eliminare un buon numero di statue o magari decapitarle», come ai tempi della Rivoluzione Francese, si sia riferito, si, al proprio intervento «dans un magazine allemand», ma astraendo completamente dal contesto e dall'argomento specifico di quell'intervento. «Non a caso», come direbbe un marxista, non a caso sull'opera lirica è stato zitto. Perciò non si saprebbe immaginare un caso più sfacciato di fortuna editoriale di quello a cui è andata incontro la colossale Storia dell'opera ideata da Guglielmo Barblan e diretta da Alberto Basso, ora finalmente messa in commercio dall'Utet dopo lunghissima e provvidenziale gestazione. Risale alla primavera del 1964 la prima idea affacciata nella «Società storica del teatro», costituitasi a Milano con la partecipazione di Piero Della Giusta, presidente, di Barblan e di Raoul Radice vicepresidenti, e di un consiglio direttivo nel quale figuravano, tra gli altri, Antonio Ghiringhelli, Paolo Grassi, Francesco Siciliani. Per una volta tanto accadde che un'idea nata a Milano dovesse trasferirsi a Torino, se voleva trovare realizzazione. E tramite la Società italiana di musicologia, di cui Barblan era allora presidente, la redazione della progettata Storia dell'opera venne affidata alla vecchia e potente casa editrice torinese, dove Alberto Basso, attuale presidente della Società di musicologia e rodatissimo architetto di grandi imprese nell'editoria musicale, per la direzione della enciclopedia La Musica, sempre dell'Utet, la prese sotto la sua efficiente tutela. Ed ora eccola qui, questa Storia dell'opera, concepita negli anni in cui sull'opera si sparava a zero, e apparsa in tutta la sua imponenza negli anni in cui l'opera è di nuovo sugli altari. Sei volumi, o, se vogliamo essere pignoli, tre volumi in due tomi ciascuno, insomma, 3500 pagine complessive, dovute alla penna di trenta autori di nove nazionalità. I due tomi del primo volume sono dedicati all'opera italiana. I due tomi del secondo volume all'opera negli altri Paesi d'Europa e d'America (e Basso, nella sua Premessa, ha quasi l'aria di scusarsi di questa «limitazione»), e infine i due ultimi tomi su argomenti afferenti all'opera, e precisamente la vocalità, i cantanti e la librettistica (tre distinti capitoli sull'Italia, la Francia e la Germania), e il significato dell'opera come fatto di costume. Può essere motivo di rammarico che si sia rinunciato a trattare anche l'argomento della messa in scena — regia e scenografia — che nel nostro tempo è oggetto di cosi appassionate discussioni. Chi ci avesse interesse si rivolga al volume Oper. Regie und Biibnenbilde beute, edito da Rudolf Hartmann per l'editrice Kohlhammer, ricco di affascinanti illustrazioni e col contributo di celebrati uomini di teatro, come Giinther Schneider-Siemssen e Jean-Pierre Ponnelle. Ma le regie italiane brillano per la loro assenza, salvo un isolato esempio di Zcffirelli. Di Strehler, Visconti, ne verbum quidem. Se si pensa che per le storie unitarie dell'opera siamo ancora ai lavori del Kretzschmar (1919), di Oscar Bie (1913), di Donald Grout (1947), si deve riconoscere che nulla esiste al mondo di paragonabile a questo straordinario repertorio d'informazioni sul teatro d'opera. «Una storia dell'opera era ancora da scrivere», afferma Alberto Basso nella Premessa, e ha ragione. Ci si può chiedere se adesso invece sia stata scritta. Tutto dipende da quel che si intende per storia. E' chiaro che in tanta abbondanza di collaboratori si producano disparità di criteri e purtroppo anche di capacità critica impressionanti.. (La storia dell'opera tedesca è, per esempio, decisamente impari all'importanza dell'argomento). Si va dal puro erudito per cui la storia consiste nella evoluzione di forme musicali astratte (quando non nella elencazione di titoli) al critico che si impegna da uomo vivo e colloca l'opera nelle vicende del Paese e dell'epoca che le hanno dato vita (e fortunatamente rispondono a questa esigenza gran parte dei capitoli dedicati all'opera italiana). Si notano lacune della bibliografia e, in alcuni casi, un curioso disinteresse per la bibliografia stessa. Questa viene relegata in fondo ai singoli capitoli, ma non sempre se ne tiene conto nella redazione dei capitoli stessi, salvo prendersela magari con anonimi mulini a vento, per mezzo di formule come: «Troppo spesso si è insistito...» o «Contro l'opinione generalmente diffusa...». Il lettore che ricorre a una Storia dell'opera di questa mole generalmente non lo fa per apprendere che l'opera è nata in seno alla Camerata dei Bardi e che Monteverdi ha scritto l'Orfeo, Mozart il Don Giovanni e Verdi il Rigoletto, ma vorrebbe essere informato di quello che su questo fenomeno d'arte è staco pensato, quali battaglie d'opinioni e scontri d'idee si siano prodotti intorno ad esso nella precedente storiografia. Là dove questa esigenza ò soddisfatta, e dove l'argomento viene sottratto alla specializzazione astratta per immergerlo nella vita delle rispettive nazioni, allora questa monumentale impresa assurge veramente al rango di storia e costituisce un argomento imponente per persuadere certi cattivi lettori di Gramsci che l'opera non è soltanto un prodotto di consumo popolare, di cui si debbano cercare, almanaccando, i rapporti con la cultura, ma è essa stessa cultura: cultura senza aggettivi, né popolare né aristocratica né borghese. Massimo Mila

Luoghi citati: America, Europa, Francia, Germania, Italia, Milano, Torino