Chi vuole uccidere la Costituzione?

Chi vuole uccidere la Costituzione? DIBATTITO SUI REFERENDUM E LA CORTE COSTITUZIONALE Chi vuole uccidere la Costituzione? i. Hanno i radicali motivo di celebrare i funerali della Costituzione davanti al palazzo della Consulta? L'ha davvero uccisa la Corte costituzionale, nella sua sentenza di qualche giorno fa (16-1-1978)? Ricapitoliamo brevemente e criticamente le vicende referendarie degli ultimi mesi: la sentenza è infatti un punto d'arrivo della procedura e un punto di partenza del sempre più probabile svolgimento dei cinque referendum rimasti in ballo. Oltre al referendum sull'aborto, già indetto e rinviato a quest'anno per effetto dello scioglimento anticipato delle Camere, il 30 giugno 1977 i radicali presuntarono otto richieste di referendum: dell'intero Codice Penale Militare di pace, dell'intero ordinamento giudiziario militare, dell'intera legge sul finanziamento dei partiti, dell'ordine di esecuzione dei Patti Lateranensi, di alcune disposizioni sui manicomi e sugli alienati, di 97 articoli del Codice Penale, dell'intera legge ed. Reale n. 152 del 1975 sull'ordine pubblico, di alcune disposizioni della legge n. 20 del 1962 che prevedono la Commissione Inquirente nei giudizi d'accusa contro il Presidente della Repubblica e i membri del governo. L'ufficio centrale per il referendum istituito presso la Corte di Cassazione il 6 novembre 1977 dichiarò legittime tutte le otto richieste (salvo, parzialmente, quella relativa all'art. 5 della legge Reale: ma la questione, ancora aperta, esula dall'argomento di oggi), tenendo presenti — ma disattendendole — alcune considerazioni contenute in un «atto d'intervento» che la presidenza del Consiglio dei ministri aveva depositato, nonostante che nessuna norma di legge lo preveda; il che suscitò le proteste di Stefano Rodotà e di Silvano Tosi. Proteste, a dire il vero, quanto meno eccessive, in quanto la «scorrettezza» formale dell'intervento non previsto dalla legge sembrava coperta dal fatto che il Presidente interveniva come «rappresentante dello Stato nella sua unità», come altre volte l'aveva definito la Corte; e in quanto egli era por¬ tatore non d'un indirizzo governativo, come dice Tosi, ma proprio d'un indirizzo che si presentava quanto meno come costituzionale. La Cassazione respinse le censure del governo: o, per meglio dire, si limitò a una funzione notarile, di semplice accertamento della regolarità della procedura seguita dai promotori del referendum, e rinviò la patata bollente alla Costituzionale. Questa, per due volte, nel 1972 e nel 1975, aveva affermato che il suo controllo sulle richieste di referendum e sulla relativa «ammissibilità» era limitato a quanto dispone l'art. 75 della Costituzione, che vieta i soli referendum sulle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. La tesi accolta dalla Cassazione è convincente: la legge sul referendum, infatti, limita il controllo di essa alla conformità delle richieste alle «norme di legge», che non possono essere altro, ritengo, che quelle procedurali contenute nella stessa legge; e l'art. 75 affida invece il controllo costituzionale all'altra Corte. L'opinione contraria, sostenuta dall'Avvocatura dello Stato in Cassazione, e da Francesco D'Onofrio, sembra arbitraria laddove rivendica alla Cassazione il potere di controllo di conformità delle richieste di referendum alle altre norme costituzionali diverse dall'art. 75: infatti, nessuna norma lo dice (né potrebbe dirlo, osserva Carlo Lavagna) ; e viceversa il controllo di costituzionalità delle leggi (e quindi, coerentemente, anche degli atti destinati eventualmente a produrre gli effetti d'una legge abrogatrice, come il referendum) rientra nella competenza esclusiva della Corte Costituzionale. ★ ★ A questo punto tutte le richieste di referendum, accompagnate dalle relative eccezioni di incostituzionalità, erano davanti a questa Corte. Ma una sola di esse poteva rientrare nei divieti espressi dell'art. 75, la legge di esecuzione dei Patti Lateranensi. Tutte le altre erano fuori delle previsioni espresse. Poteva la Corte Costituzionale costringere il suo sindacato oltre le ipotesi contenute nell'art. 75, e dichiarare inammissibili tutte o alcune delle richieste, per motivi diversi? La questione era assai delicata, investendo questioni di principio destinate a ripercuotersi sul destino di tutti i referendum avvenire. La Corte Costituzionale ha dichiaratamente inteso fare un passo avanti rispetto alla sua precedente giurisprudenza restrittiva. E' partita mettendo in dubbio — forse inutilmente, e in modo non convincente — la tassatività dei divieti contenuti nell'art. 75; ha affermato peraltro che non possono essere ignorati i nessi che collegano l'art. 75 con le altre norme costituzionali sul referendum, per cui essa ha rinvenuto quattro distinti ordini di inammissibilità nascenti da valori costituzionali, relativi alla struttura e ai temi delle richieste referendarie, da tutelare «al di là della lettera dell'art. 75». Prima di enunciarli, voglio avvertire che questa interpretazione, che non rinnega la tassatività dei casi elencati nell'art. 75, ma che è «estensiva», investendo il concetto e la natura del nostro referendum, era stata in via generale ammessa anche dagli scrittori di parte radicale riuniti a Roma il 7 e 8 gennaio scorsi proprio per esaminare questi problemi. L'Avvocatura dello Stato, rappresentata da quel giurista di alto valore che è Giorgio Azzariti, aveva ricordato i lavori dell'Assemblea Costituente e del Senato; Carlo Lavagna aveva detto che, qualora la Corte rinvenisse contrasti fra l'ipotetico risultato abrogativo e qualunque norma costituzionale, non potesse non darsene carico, dato che sarebbe stata poi chiamata ad annullare il voto referendario. Più semplicemente, Sergio Fois ebbe a dire che non può negarsi che sussistano «limiti logici» al referendum, o comunque limiti che siano da ritenere «chiaramente impliciti» in tutte le disposizioni dell'art. 75. Un controllo generale di costituzionalità, infatti, sembra da escludere in questa sede. ★ ★ La Corte trovava dunque una strada aperta: ma le applicazioni del principio non sono affatto pacifiche. Il primo fra i limiti logici che essa ha rinvenuto è stato così definito: «Sono inammissibili le richieste così formulate, che ciascun quesito contenga una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una materia razionalmente unitaria, da non poter venire ricondotte alla logica dell'art. 75». In applicazione di questo limite, essa ha dichiarato inammissibili tanto le richieste relative all'abrogazione dei 97 articoli del Codice Penale, quanto quella relativa al Codice Penale Militare di pace, mentre ha dichiarato ammissibile la richiesta relativa alla legge Reale, che contiene parecchie cose, ma non disomogenee fra loro. I lavori preparatori confortano questa sorta di limite logico: Einaudi, alla Costituente, si augurava che al corpo elettorale fossero rivolte domande chiare e univoche, e così Ambrosini, Nobile, Mortati («11 popolo deve essere messo in grado di votare sapendo quello che vota»). Ma Gustavo Zagrebelsky ritiene invece che la Corte non possa intervenire e che la sanzione contro la disomogeneità della richiesta debba essere solo politica, e debba essere data dal corpo elettorale: il che non persuade, se si pensa al costo e al trauma d'un inutile referendum. Perciò Paolo Ungari sostiene che ci si debba concentrare su poche e chiare domande, anziché eccitare lo spirito della gente a travolgere e abbattere tutto promiscuamente. Quanto poi all'applicazione pratica dell'esclusione del referendum sul Codice Penale, Rodotà è giunto ad affermare che la proposta radicale di abrogare solo 97 articoli costituisce «una prova di singolare moderazione in quanto è stata esclusa la strada della caduta dell'intero Codice»: col risultato probabile, replica Ungari, dello «scatenamento di innumerevoli delitti, in attesa che le norme penali siano sostituite da altre». Anche la tesi secondo cui, caduto il Codice Penale Militare di pace, si espanderebbe senza danni il Codice Penale comune (ancora Rodotà) è assai opinabile, essendo alcune ipotesi di reato militare sconosciute a quest'ultimo (si pensi alla diserzio- ne)- Paolo Barile (continua)

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