Una sola strategia per due "partiti" di Frane Barbieri

Una sola strategia per due "partiti" A Mosca e nei Paesi dell'Est Una sola strategia per due "partiti" (Dal nostro corrispondente) Belgrado, 15 febbraio. In un'analisi strategica, fatta a Mosca, viene preso in esame un aspetto che sfugge quasi a tutti i trattati sul rapporto globale di forze in Europa. Vi si analizza, infatti, la disponibilità politica e psicologica, oltre che civile, delle varie nazioni, di combattere con convinzione dall'una o dall'altra parte dei due grandi schieramenti mondiali. E si arriva ad una curiosa constatazione: mentre in una serie di Paesi occidentali, come l'Italia, la Francia, la Spagna e forse qualche Paese scandinavo, una buona parte della popolazione non si lascerebbe coinvolgere nel conflitto con l'Unione Sovietica, considerandola amica, in una serie di Paesi dell'Est è prevedibile una simile reazione alla rovescia. Una buona parte dei polacchi, dei cecoslovacchi e degli ungheresi non considererebbero l'Occidente come nemico; il comportamento dei tedeschi orientali di fronte ai fratelli occidentali risulterebbe per lo meno estremamente incerto. I grandi blocchi, anche se militarmente sempre più potenti, risultano umanamente e civilmente molto meno consistenti. Uno (l'occidentale) è corroso dall'antiamericanismo e l'altro (l'orientale) dall'antisovietismo. Lasciando a Washington le sue preoccupazioni, fra cui non ultima l'eurocomunismo, a Mosca ci si preoccupa di come consolidare politicamente la zona del cosiddetto «socialismo reale». Il problema diventa più difficile in quanto gli stessi sovietici, per uscire dalle strette, hanno dovuto decidere di rendere più fluidi i legami economici, spingendo in un certo modo i propri alleati a cercare scambi e crediti all'Ovest. Dunque: come far costare meno il mantenimento dell'impero, senza perderlo né sfasciarlo? Si tratta, a quanto ci consta dalle informazioni raccolte a Belgrado, del dilemma centrale di tutte le discussioni in corso al Politburo del Cremlino. La prima garanzia dovrebbe essere la presenza militare. Su questo punto tutti sembrano d'accordo, ma non sono d'accordo che sia sufficiente. 11 divario d'opinioni ha dato origine a due « partiti ». Suslov vede il campo socialista come un monolito ideologico, politico ed economico, protetto da un esercito forte: un bastione con un'unica stanza di comando. La visione di Breznev risulta più dialettica. Se, per sgravare l'economia sovietica dagli eccessivi impegni, occorre rendere più dinamici i rapporti economici con gli alleati, egli sostiene che anche il coordinamento politico deve essere più dinamico e dialettico. Soprattutto, più pragmatico che ideologico. I «due partiti» di Mosca si sono estesi con le relative ramificazioni in tutte le capitali dell'Est: in ogni vertice agiscono i susloviani accanto ai brezneviani. Il caso più eclatante è quello di Praga. Il brezneviano Husak, che cerca inutilmente di diventare un Kadar cecoslovacco, viene contrastato in tutto dal susloviano Bilak. Questi si è impossessato personalmente di ben quattro segreterie del partito (organizzazione, ideologia, propaganda ed esteri), rimproverando Husak per i cedimenti verso i dubeekiani. Praga è diventata così un centro di resistenza susloviana contro tutti i riformismi — eurocomunismo compreso — molto più scoperto di Mosca. A Budapest, invece, succede il contrario. Benché sia stato costretto tre anni fa ad eliminare dal governo tutti i suoi più intimi amici riformisti per sostituirli con dei giovani leoni venuti dalle scuole sovietiche, Kadar riesce a tenere tuttora vive le tendenze riformistiche. Senza parlare troppo e polemizzando ancora meno ha messo in atto, dal primo gennaio, una serie di provvedimenti riformistici, che danno una larga autonomia alle imprese. In contrasto con le riviste di Praga, quelle di Budapest pubblicano articoli tolleranti, se non del tutto favorevoli, sull'eurocomunismo. Mentre, a Budapest, non riescono a bloccare l'influenza della corrente opposta, i susloviani hanno più successo a Varsavia. Cierek asseconda Breznev, però la situazione estremamente tesa e grave del Paese dà ragione ai seguaci di Suslov. Cosi anche recentemente una sortita del gierekiano Rakovski a favore del decentramento è stata subito contrastata dai duri dell'apparato. Dopo di che, non si è parlato più delle riforme. Nel quadro di questa diversificazione anche l'autonomista Ceausescu ha trovato ultimamente più spazio di manovra, inserendosi da mediatore addirittura nelle intricate vicende del Medio Oriente. Ancora un anno fa, durante il vertice del Patto di Varsavia a Bucarest, la Romania sembrava riassorbita nel blocco monolitico. I margini d'autonomia sono comunque stretti, le differenze a momenti appena percettibili. Sul riformismo e la liberalizzazione si decide in ultima conseguenza sempre a Mosca e lì, quando si tratta di tenere saldo l'impero, non c'è differenza fra Breznev e Suslov in materia di fini: i due si differenziano solo nel definire i mezzi per conseguirli. Una tendenza si combina all'altra: così si spiega come la fluidizzazione dei rapporti economici, voluta da Breznev, si sia accompagnata ad una stretta ideologica e politica di marchio susloviano. Lo dimostra la serie di conferenze e consultazioni ideologiche a livello internazionale organizzata dal grande sacerdote dell'ortodossia. Egli sostiene che uno sgretolamento ideologico è in atto, e da un punto di vista strettamente teorico non ha tutti i torti. Solo che i brezneviani prendono il fenomeno dal lato opposto e sostengono che la diversificazione, se non giova, non comporta nemmeno seri pericoli per la posizione dominante dell'Urss. Ecco un esempio, riportatoci da un autorevole personaggio, su come fra brezneviani e susloviani si discuta dell'eurocomunismo. Anzitutto, bisogna notare che in questa materia Suslov fa scrivere gli attacchi del «Novoje vremja» e riportare dalla «Pravda» le violenti requisitorie dei bulgari e dei cecoslovacchi (l'ultima, della settimana scorsa, è scritta dal bilakiano Fojtik e diretta contro tutti i «rinnegati», dai maoisti agli eurocomunisti); mentre Breznev nega, di fronte alle delegazioni straniere, che gli articoli del «Novoje vremja» riflettano le posizioni del Politburo e fa pubblicare sulla stessa «Pravda» l'articolo aperturista dell'ungherese Berec. Però, il problema di fondo per il Cremlino è un altro: l'eurocomunismo rafforza o indebolisce l'Urss di fronte agli Stati Uniti? Per i susloviani, esso minaccia di intaccare il monolitismo ideologico su cui poggia il blocco sovietico. Per i brezneviani questo pericolo, che pure esiste, è riparabile con una stretta ideologica, mentre molto più vantaggioso risulta lo sgretolamento del sistema capitalistico in conseguenza dell'affermarsi dell'eurocomunismo. A chi si chiede se l'avvento dei comunisti al governo in un Paese occidentale arrecherebbe più danni a Mosca o a Washington, i brezneviani rispondono con un'ipotesi paradossale. In Polonia, essi dicono, il cardinale Wiszinsky è una specie di eurocomunista alla rovescia: accetta la realtà della collocazione storica del suo paese, accetta di conseguenza il Patto di Varsavia, invita i polacchi a sopportare il sistema e a non causare terremoti per non provocare una reazione violenta dei russi: un Berlinguer vestito da cardinale. Se però, disponendo anch'egli di un forte «partito dei credenti», che alle elezioni raccoglierebbe voti più o meno come il pei, il cardinale presentasse un giorno la richiesta di entrare nel governo per tirare il Paese fuori dalla crisi, e se la sua richiesta fosse esaudita, chi sarebbe avvantaggiato: Washington o Mosca? Il paradosso sembra dar ragione ai brezneviani, ma i susloviani non si danno pace. Anchp perché sostengono che, sulla scia di Berlinguer a Roma, anche Wiszinsky potrebbe prendere più coraggio a Varsavia. Frane Barbieri