Lord Bullock iscritto al pci?
Lord Bullock iscritto al pci? La partecipazione operaia all'azienda Lord Bullock iscritto al pci? Naturalmente, è una battuta, e un paradosso; e, aggiungo, è detta senza malizia. Lord Bullock era il presidente della «Royal Commissiona che, circa un anno fa, pubblicò un rapporto contenente precise e penetranti proposte per la partecipazione dei lavoratori inglesi alla gestione delle imprese. Fu una svolta significativa (anche se non ebbe e forse non avrà seguito immediato) perché il sistema di relazioni industriali britannico, improntato a rigorosi principi di antagonismo conflittuale, non sembrava che lasciasse molto spazio per una proposta del genere, che invece apparve condivisa, di massima, dai sindacati. La conferenza dì Milano dell'Istituto Gramsci, conclusa, come è noto, dall'intervento dell'on. Napolitano, ha rappresentato, in materia, una svolta di pari ampiezza angolare. La «partecipazione conflittuale» o il «conflitto cooperativo» (espressioni che, in verità, sarebbe meglio perdere che trovare per la loro intrinseca contraddittorietà) sono ora una proposta operativa del pei, che nell'occasione ha trovato peraltro un referente concreto solo nel rilancio delle conferenze di produzione: un'esperienza ormai abbastanza diffusa nelle grandi imprese, e che, come tale, può già essere oggetto di qualche valutazione. Di «partecipazione dei lavoratori» (come preferisce definirla il nuovo corso del pei) o di «democrazia industriale» (che è la terminologia britannica) o di «controllo operaio» (quella più sinistrese, ma anche più viva nella tradizione socialista) si cominciò a parlare, a dire il vero, due anni or sono, e forse la prima sede fu un dibattito presso il Club Turati di Torino, nel marzo 1976. Seguirono, particolarmente, «Mondo operaio», la rivista culturale del psi, un convegno della Fondazione Brodolini, un altro, ancora a Torino, dei «giovani industriali», nonché una copiosa serie di indagini e di studi. Non deve apparir strano se il pei, grande partito di massa, sì muove più lentamente; ma quando lo fa ci mette tutto l'impegno. E quel che per altri è materia di discussione, qui diventa linea generale. E' una linea che, nelle sue premesse, mi par comunque sia pienamente da condividere. Da tempo, d'altronde, vado sostenendo che, anche a far meno di grandi modelli di ingegneria istituzionale, la via di sviluppo delle relazioni industriali è data dall'assunzione di iniziative e di responsabilità da parte della classe operaia, in ordine alle scelte produttive e anche ai risultati produttivi. Un'economia che chiede una profonda trasformazione coniugata con un equilibrio politico che accentua il ruolo di governo dei partiti di classe non può non prospettare comportamenti nuovi nello stesso campo sindacale. E non è questo, dopotutto, il senso del motto dì Bruno Trentin «da sfruttati a produttori» o del sempre più insistente richiamo alla funzione egemonica della\ classe operaia come «classe dei produttori»? E' sugli strumenti proposti — quanto meno nella conferenza di Milano rammentata all'inizio — che nasce qualche perplessità. Vanno bene le conferenze di produzione, sempreché, come ha ammonito uno dei relatori (Carlo Smuraglia), non si riducano ad una passerella di stelle. Le conferenze di produzione in certi casi hanno costituito un salutare trauma politico-sindacale, e questi momenti sono pur necessari quando si decide di mutar linea. Esse inoltre corrispondono all'esigenza di coinvolgere, con i Consigli di fabbrica e i sindacati, anche le forze politiche e le autonomie locali. Ma nelle conferenze di produzione si annida anche il pericolo che il tutto si risolva nel gran chiasso e nella irreversibile confusione. Si è detto, fin dal primo momento in cui si è proposto questo tema, che la partecipazione o la democrazia industriale, come la si voglia chiamare, va mantenuta indenne dal pericolo del {razionalismo aziendale, che sarebbe tanto più esiziale in un sistema produttivo in attesa di una profonda riconversione; e su questo punto la conferenza del pei non ha manifestato davvero incertezze. Essa, inoltre, detto per inciso, non può neppur esser pensata, oggi, se non con il complemento di efficaci strumenti di controllo del mercato del lavoro e della mobilità. Occorre, tuttavia, e qui ci vuol molta più chiarezza, che rendite e funzioni siano ben definite e distinte. Nell'impresa, mi sembra necessario vada riaffermata la centralità del sindacato e della democrazia partecipativa che in esso si colloca. Fuori dell'impresa, appaiono più che mai necessari canali di contatto, di elaborazione, di formazione del consenso. Ma l'una cosa non deve mischiarsi con l'altra; e il tutto deve poi trovare il suo approdo nella programmazione: questo è un punto centrale, che a Milano è stato molto (e opportunamente) sottolineato. Non è neppur pensabile una via italiana alla democrazia industriale che non sia indissolubilmente connessa con una seria programmazione e con la struttura istituzionale che la dovrà render operante. Ed a questo, ad essere onesti, Lord Bullock non aveva pensato. La conferenza di Milano ci ha pensato, ma non ha dato risposte esaurienti sul come raggiungere il risultato. Gino Giugni
Persone citate: Bruno Trentin, Carlo Smuraglia, Gino Giugni, Lord Bullock, Napolitano
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