Una parolaccia in Arcadia di Dacia Maraini

Una parolaccia in Arcadia A PROPOSITO DI UN INSULTO INCRIMINATO Una parolaccia in Arcadia Lo confesso: mi sono vergognato molto, giovedì scorso, leggendo la « testimonianza » d'un linguista, su questa pagina, a proposito d'una parolaccia rivolta da Dacia Maraini a Bepi Berto. Poi ho notato che altri giornali si sono impadroniti golosamente della « querelle» (tribunalesca e mondana, letteraria e da cortile, politica e salottiera). La vergogna non è certo diminuita. Ho provato a scrivere un epigramma «ad hoc ». Forse riuscito, però probabilmente inadatto a esprimere la tristezza che può cogliere un uomo (non solo di lettere) quando vede scardinate le regole del buon gusto, del saper vivere, del saper parlare proprio nell'attimo in cui dovrebbe aver funzione il suo più ricco vocabolario. Sostiene il linguista che una certa e greve parola risulta ormai smussata grazie all'uso. Quindi sottende una minor capacità offensiva. E' tesi che non vorrei sposare a nessun patto. Anche perché « le parole sono pietre », e contano, feriscono, uccidono, come ben sappiamo. Una parolaccia è inferiore ad una parola? Qui non serve il linguista, ma Re Salomone. Così la vergogna che sale dai visceri è ancora più pesante: davvero non ci rendiamo conto dei neo-bizantinismo in cui nuotiamo come mosche nella marmellata? E' sempre su una parola che la vocazione leguleia e accademica e professorale e arcadica nostrana compie i suoi esercizi mortuari. E' sempre su una parola (e non importa che sia « convergenza » o « compromesso » o « pluralismo » o altro) che ci si accanisce, perdendo il tempo e la faccia. E' sempre su una parola — colta come occasione provocante o come specchio d'una realtà da inventare — che trasciniamo le nostre carni infette. Saranno proprio queste parole a comporre l'epigrafe sulla tomba collettiva che ci rinserrerà. Perché delle parole, noi — dicendole tra di noi — ridiamo. Anche se offesi. Ci camminiamo su. Sguazzando. Linguisti e non linguisti, avvocati e giudici, sinistresi e destri (ma a ciascun la sua destrezza) si campa di vivisezione su un vocabolario morto. E così « st... » non è infamia per chi la riceve e per chi la pronuncia, ma un'altra occasione di cattedra, l'ennesima curva dove pilotare, con grazia, nuovi atteggiamenti. Io vorrei tanto che Bepi Berto dicesse: mi piacerebbe che Dacia Maraini ritirasse e cioè cancellasse quella parola. E vorrei tanto che Dacia Maraini dicesse: sì, mi è scappata, mi spiace, non lo farò più. Invece no. Anzi: Moravia invoca nuove interpretazioni semantiche per il vocabolo «mafia» gridato da Bepi Berto. Ad un linguista si contrapporrà un altro linguista (e non la commissione antimafia, beninteso: si è sciolta anzitempo per anzianità di servizio). In un mondo storico che ba¬ da al reale, che è costretto al reale, noi ci balocchiamo con le parolacce. Aggravandole di interpretazioni contrastanti e di « distinguo » giuridici. Accarezzandole per ciò che dovrebbero essere e non sono. Levando la carica triviale in obbligo a vezzi; mettendola invece dove manca (un solo esempio: citando il Tizio e il Caio come « signori ». Lo faceva anche Togliatti, e quel « signore » appiccicato a Tizio suonava insulto, codice, memorabile marchio) . Per questo continuo a vergognarmi. So che la diatriba è tanto idiota quanto tipica. Forzosamente mi intriga, anche se sono un italiano che vorrebbe vivere nel mondo e non solo in Italia, dove le parole diventano apparenza e perdono realtà, assassinano ma non qualificano. Il salotto scatologico è un ennesimo sintomo della nostra degradazione, figlia dell'arroganza. Giovanni Arpino

Persone citate: Bepi Berto, Dacia Maraini, Giovanni Arpino, Moravia, Re Salomone, Togliatti

Luoghi citati: Italia