La parola che Dacia disse a Berto

La parola che Dacia disse a Berto La parola che Dacia disse a Berto Al tribunale di Torino si discute il processo per la querela dello scrittore Giuseppe Berto conlro la scrittrice Dacia Marami (servizio a pagina 9). Berto dichiara d'essersi sentito olleso perché la Maraini in un' intervista lo qualificò col termine di « stronzo ». Il collegio è chiamato a stabilire se la parola sia offensiva e in quale misura Allegata agli atti c'è una perizia sul termine, affidata a Tullio De Mauro, professore ordinario di Filosofia del linguaggio nella Facoltà di Lettere dell'Università di Roma. Poiché rileniamo che sia non solo curiosa, ma anche interessante per il suo contenuto culturale, la pubblichiamo integralmente. Si può asserire con ragionevole certezza che la parola stronzo ed i suoi derivati traggano origine da parlate germaniche medievali. In età moderna, le parlate tedesche settentrionali, con strunt « escremento », e nederlandesi, con stront « id. », consentono di postulare un Iranco strunt, non documentato, che si ritiene (Bloch-Wartburg) all'origine del francese étron, documentato fin dal XIII secolo, con un significato così identificato (Robert): « Matière fecale consistante et moulée (de l'homme et de certains animaux) ». Per le aree linguistiche ora menzionate è interessante rilevare che i lessicografi non registrano usi estensivi e/o metaforici del vocabolo, che pare di frequenza assai bassa e d'uso circoscritto, anche se non soggetto a particolari interdizioni, come mostra, ad esempio, l'uso che ne fa uno scrittore come Jules Romains, allorché scrive: «C'est camme les étrons de chiens: ca doit porter bonheur». Nelle parlate romanze d'area italiana il vocabolo appare anzitutto nelle glosse latino-germaniche , sotto la forma strundius: si suppone (W. Meyer-Lùbke) che in Italia la parola sia stata introdotta dai Longobardi, radicandosi in parlate ladine dolomitiche e in friulano, dove ha la forma stru/ont/z, in toscano e nell'italiano letterario, sotto le forme stronzo o, frequentemente, in antico, stronzolo, e nei dialetti meridionali, dal napoletano al siciliano, con vocalismo -u- e frequente uso di diminutivi. Il valore primario, nell'italiano comune e nei dialetti, è quello atteso, che un dizionario corrente, solitamente lodevole per sobrietà e precisione di definizioni, il Dizionario della lingua italiana del Passerini-Tosi, registra come unico valore: « Porzione cilindrica di materia fecale ». Sembra importante sottolineare ciò: alla coscienza di un lessicografo attento, come il PasseriniTosi, che fonda la sua opera su osservazioni e analisi condotte fino alla metà degli Anni Sessanta (il Dizionario è edito nel gennaio 1969), i valori metaforici del vocabolo paiono estranei a quello Ohe egli definiva, nella prefazione, « l'uso comune del nostro tempo (...) coerente alla tradizione ». Il documento lessicografico ora citato ha una sua validità, nel senso che, effettivamente, gli usi metaforici del vocabolo, cui questo, come diremo, deve la sua larga fortuna, ancorché non ignoti alla tradizione propriamente toscana e letteraria, in essa hanno un ruolo marginale. In generale, i vecchi voca¬ bolari italiani che direttamente o indirettamente si rifanno all'attività lessicografica della fiorentina Crusca, citano con evidenza il valore fondamentale e primario, « pezzo di sterco sodo e rotondo ». Ma scorrendone minutamente definizioni e citazioni si trovano segnalati anche usi metaforici: così il Vocabolario di Giuseppe Manuzzi, del 1865, segnala che il vocabolo è « figuratamente detto ad altrui per ingiuria, o in ischerzo ». Rileviamo così che gli usi I metaforici, certamente marginali nella tradizione d'uso della lingua letteraria più antica, paiono, quando vengono osservati, non disgiunti da una connotazione di scherzosità. Nelle parlate in cui il vocabolo è presente, di area settentrionale e meridionale, troviamo altresì oualcosa di analogo. Ad esempio, in friulano, l'autorevole Nuovo Pirona, segnala l'uso estensivo della parola come vezzeggiativo: « Ah, tu ses propi un strunz di frut » (frut vale « ragazzo, bambino »). Annota il Pirona che qui la paroba è usata « come vezz. (eggiativo) ». Ardita metafora Questa connotazione affettuosa, scherzosa, appare anche fin dall'Ottocento in altri domini dialettali ed è all'origine del frequente uso dì derivati diminutivi nelle stesse singole aree: dal napoletano istrunzillo, « omiciattolo, uomo da nulla » (D'Ambra), al siciliano strunziddu, strunzinu, sinonimi di « ragazzo un po' prosuntuoso, cazzabùbbolo » (Traina). Il Traina è netto nel registrare il valore metaforico del vocabolo di base, strunzu, spiegato con « baggeo, marzocco ». La radicata presenza di un valore metaforico, legato specialmente al mondo infantile e giovanile, è segnalata anche da G. Rohlfs, nel 1930 circa, nel Dizionario dialettale delle tre Calabrie, a proposito della parola strunzu, che vale sia «stronzo, pezzo di sterco, cacherello », sia « ragazzo piccolo o malfatto » ed anche « omicciattolo ». Il vocabolo è presente anche nel dialetto romanesco almeno dall'Ottocento, ma, inizialmente, quasi solo con il valore fondamentale. E' questo il valore delle rare (cinque) attestazioni nei sonetti di Belli, il quale solo in un caso adopera la parola con valore metaforico e, si noti, ancora una volta dobbiamo rilevare il riferimento tra scherzoso e affettuoso a un « bardassaccio », un ragazzaccio «de mane longhe », cioè manesco: « Te lo saressi creso? Un pichimeo/ un stronzo, un cirifischio, un reducellì / mena le mano, maneggia cartelli... » (Sonetto 1973, vv. 1-3), « Lo avresti mai creduto? Un pigmeo, uno stronzo, un ragazzetto, un re d'uccelli (uccellino piccolissimo), menare le mani, maneggiare coltelli... ». Ancora alla fine del secolo passato e agli inizi del presente la parola aveva una presenza marginale, legata soprattutto al valore primario, non metaforico, nella parlata di Roma, come si vede dalle annotazioni del lessicografo del romanesco Chiappini. Il parere di Tullio De Mauro Sembra indubbio, quindi, che, secondo un'ipotesi implìcita nelle indicazioni di Bruno Migliorini (in Parole nuove, s.v.), la fortuna romana della parola sia dovuta a spinte meridionali, alla componente migratoria napoletana e meridionale in genere che agisce a Roma da molti decenni. Come altrove si è già mostrato (Storia linguistica dell'Italia unita, 4' ed., pp. 177-78, 181-82, 394), il caso non è isolato. Soprattutto nel vocabolario più marcatamente affettivo, nelle più forti e cariche qualificazioni di oggetti e persone, la parlata di Roma si è arricchita negli ultimi decenni di numerosi elementi meridionali e sono soprattutto questi elementi lessicali romano-meridionali (come, ai esempio, fesso; quelli che hanno avuto più larga e stabile accoglienza nell'uso quotidiano popolare o popolarmente atteggiato delle altre regioni italiane. Si può fare datare agli anni del secondo conflitto mondiale la grande fortuna popolare romana della parola in questione. L'alta frequenza colpisce anche l'osservatore profano (Cantagalli) e pare caratteristica della parlata della città. Ci riferiamo, naturalmente, alla parola nel suo uso metaforico. Con la fine degli Anni Cinquanta, la parola ha, sempre nel senso metaforico, carico di affettività, la sua consacrazione letteraria nei romanzi di Pier Paolo Pasolini, specialmente in Una vita violenta (1959). E' notevole che mentre altre parole dei lessico scatologico o sessuale appaiono negli scritti di Pasolini indicate allusivamente con iniziale e finale e puntini per le lettere intermedie, stronzo, stronzetto ecc. sono scritte in extenso: ciò sembra dipendere da una maggiore accettabilità già acquisita da queste parole e da una minore soggezione a interdizioni. Con gli inizi degli Anni Sessanta numerose testimonian¬ ze (C. Costantini, « Il Messaggero » 5-6-1960, M. Gerita, « Lotte nuove » 25-7-'60, A. Giovannini, « Corriere Lombardo » 9-12-61, « La Discussione » 30-9-'62, D. Bartolì, « Epoca », 29-3-'64) documentano che a Roma l'uso della parola ha varcato i confini dell'esprimersi più marcatamente affettivo e popolaresco ed ha attecchito nella conversazione medio e medioaltoborghese. Una tendenza, rilevata da| gli studi di statistica linguii stica e nota come legge di j Guiraud-Zipf (per la formu| lozione più tecnica si può vei dere l'articolo Statistica lin! guistica ne^'Appendice III ! ch'Enciclopédia Italiana;, i domina gli sviluppi del significato delle parole: quanto più una parola diventa frequente, tanto più il suo significato si fa generico, vario, sfumato. E, naturalmente, quanto più vago va diventando il significato d'una parola tanto più essa si presta a fare da parola passepartout, buona per ogni uso. L'alta frequenza de.la parola stronzo nell'uso sia popolare sia colloquiale borghese romano, già dall'inizio degli Anni Sessanta, ha smussato nell'uso romano stesso gli spigoli offensivi che il vocabolo aveva potuto avere inizialmente. Di più in più la paro-la ha acquistato una riso nanza familiare, quotidiana, come appellativo applicato largamente a qualunque persona verso la quale si nutrano sentimenti di rammarico, di anche benevolo rimprovero. In romanesco Con gli Anni Settanta, si consolida il fenomeno già segnalato (Storia linguistica cit.) di generalizzazione di questi comportamenti linguistici tipici di Roma ad altre città e regioni italiane, come è documentato anche dall'accorato articolo dello scrittore Carlo Bernari (Le parolacce quotidiane, « TI Giorno» 18-5-1975). il quale attesta con cura come « le parolacce (...) provengono dal romanesco, che ha fatto da battistrada nel nazionalizzare forme (...) d'impronta fescennino », cosicché dap¬ pertutto oggi in Italia « anche il parlare più comune familiare o da salotto si è caricato di aggressività e di violenza verbale, tanto da farci assistere ad un rapido espandersi del linguaggio più vituperoso anche fra gente privilegiata per censo e cultura », al punto che la parola in questione qui può apparire in una raccolta di versi e poesie curata da S. Sabbadini per la nota e fine pubblicazione Almanacco dello Specchio, n. 4 (1974), edita dal Mondadori. In complesso, dunque, gli usi attuali della parola stronzo, e dei suoi derivati (l'aggettivo denominale stronzo-a, i diminutivi, il sostantivo nomen actiois e nomen rei stronzata ecc.), in ragione della loro frequenza, che è soprattutto, ma non più solo romana e popolare, sì I compongono in un quadro in cui soltanto intonazioni rabbiose restituiscono a queI sti vocaboli una carica parj ticolarmente ingiuriosa (ma si sa che contesto e intona| zione possono caricare di j /or2a offensiva qualunque i vocabolo, anche solitamente ! neutro e descrittivo), mentre per lo più nell'uso parlato e scritto si tratta di vocaboli che si applicano a persone e atti che non intendiamo tanto offendere o mettere in cattiva luce, quanto qualificare come persone o atti con cui non concordiamo e rispetto a cui intendiamo collocarci in posizione di dissenso, anche senza malevolenza. In questo quadro trovano collocazione usi anche blandamente scherzosi e perfino amichevolmente scherzosi e affettuosi, nei confronti di persone cui l'utente si senta unito da particolari vincoli di amicizia, di solidarietà di gruppo professionale o sociale. Allo stato attuale pare fuor di dubbio che espressioni tradizionalmente più accette un tempo, come scemo o, più trivialmente, fesso o, più doti tornente, secondo un modulo j caro al Croce, inintelligente. I siano ormai più marcatamente cariche di valenze negative e ostili di quanto non sia la parola sulle cui vicenI de semantiche ci siamo qui I intrattenuti.

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