Concetto Marchesi

Concetto MarchesiConcetto Marchesi (Nasceva cent'anni fa un maestro d'umanistica) Rievocare la memoria e rivendicare l'opera d'un umanista quasi potrebbe avere, oggi, un sapore fra l'anacronistico e il paradossale. Ma come umanista, più assai che non quale militante di parte o studioso di lettere antiche o professore o scrittore, giova oggi, nel centenario della sua nascita, ricordare Concetto Marchesi: perché tutte l'altre sue doti, virtù e attività, nel campo, appunto, della politica, delle lettere o della scuola furono subordinate, furono le conseguenze della dote sua massima e prima: Vhumanitas; e la fede nell'umanesimo, cioè nel valore umano della tradizione classica, in cui solo consiste, per Marchesi, il vincolo infrangibile che lega il passato al presente e il presente all'avvenire. Come non esitò mai nella sua scelta di parte, cosi non esitò mai nella sua professione di studioso e di maestro. Militò nelle file della più impegnata sinistra, socialista fino al 1921, quindi comunista dopo la scissione di Livorno, sin dagli anni d'una gioventù generosamente angosciata per l'imminenza minacciosa ed urgente del problema sociale, di una radicata ingiustizia di classe che andava progressivamente lenita e progressivamente soppressa. Ma negli anni medesimi del suo apprendistato socialista e carcerario il Marchesi iniziava anche il suo apprendistato di poeta, di scrittore e di studioso, ricercando nella poesia il lenìmen al dolore universo degli uomini e nella scuola l'acconcio strumento per un'opera non pur di educazione, ma di socialità: quasi la fondazione, o il parallelo sviluppo d'un'altra «ecclesia». Troppo spiritualmente umano, il Marchesi, perché in lui potessero mostrarsi scisse o distinte la cultura e la politica, la ricerca scientifica e l'attività d'insegnante. Ma troppo egli avverti l'universalità e l'umanità consolatrice dell'arte, appunto, com'egli usava dire in suo latino, il lenìmen della sua poesia, perché quest'ultima, ineffabile mistero e ineffabile creazione dell'uomo, gli si potesse mai abbassare a strumento: ad ornamento e a vantaggio d'una parte, fosse pur la migliore e maggiore, dell'umanità. Esule in Isvizzera dopo l'eroica difesa della sua Università padovana e del diritto-dovere dei giovani alla libertà, alla verità, ad aprire o a tenere «aperte le vie della luce», nuovo maestro per i reclusi militari nei campi d'internamento elvetici, scriveva il 15 maggio del '44: «Non chiediamo che l'arte e la scienza siano messe al servizio di una classe. Noi chiediamo all'arte e alla scienza un ufficio di liberazione. Da esse devono venire pace e libertà all'anima degli uomini, che di pace e libertà avranno sempre bisogno nelle inevitabili infermità della loro intima vita. L'arte al servizio del proletariato sarebbe una bestemmia se non fosse una stupidaggine». Pochi mesi più tardi, a gennaio del 1945, mentre dal Mezzogiorno e da Roma iniziava, e s'iniziava, l'opera della ricostruzione (a cominciare, o che avrebbe dovuto cominciar, dalla scuola), il Marchesi, nel periodico medesimo del suo partito, ribadiva: «La cultura umanistica giova a tutti; il giorno in cui decadesse, sarebbe notte nel mondo». E, quasi a fornire la riprova che non divergevano in lui la militanza comunista e la professione umanistica, testualmente, consapevolmente ripeteva, a questa data e su Rinascita, alcune parole, o confessioni, della remota prolusione padovana del '23: «A che serve la letteratura antica? Serve a dimostrare che nulla muta nell'>.sigenza dello spirito nostro; che la cultura, bumanitas, è stata ed è sempre dentro di noi, mai fuori di noi... Più lontano e più in alto si va per l'attività interiore e creativa dello spirito, soltanto». Perché in ogni ricerca, in ogni travaglio di verità, in ogni tema e fatica di studio erudito, «si ridesta una particella sperduta o ignota di umanità», Donde la rivendicazione teoretico-politica della sua «scuola classica». E tutta l'opera sua di umanista, fino al miracolo, fra il 1925 e il 1927, dei due volumi della Storia della letteratura latina, la quale nella scuola fascista o fascistizzata, dove tuttavia potè circolare liberamente, operò il correlativo miracolo d'un lavacro di verità, d'una radicale demitizzazione, sostituendo agli orpelh' imperiali d'un regime la formula, l'impegno e il dovere della fraterna, consapevole umanità, l'attesa virgiliana di chi, nella notte dei tempi, portasse e porgesse la lampada, di chi affrettasse, con la speranza e col sacrificio, l'avvento promesso d'un novus ordo. Il quale in tanto poteva, nel giudizio del Marchesi, progressivamente, ma non taumaturgicamente, instaurarsi, in quanto, sempre più instaurandosi ed ampliandosi Vhumanitas nell'indistinzione delle classi, crescesse del continuo il numero di coloro che ricercano la cultura per la consapevolezza del disinteresse, dell'utile inutilità della cultura medesima. La cultura, perciò, quale strumento di edificazione intellettuale e morale dell'individuo, anteriormente ad ogni necessità pratico-tecnica, all'apprendimento d'un qualunque «mestiere». La sua scuola, appunto perché scuola di bumanitas, poteva diventare, come suo termine ultimo, ma non doveva essere come suo scopo unico ed immediato (e gliene mossero vario rimprovero, vivo e morto il Marchesi, non pochi uomini di parte sua, dal Banfi al Petronio), scuola di massa, ove al termine massa si attribuisca in sostanza un connotato deteriore, ove massa risulti essere non la somma dei singoli individui, ma l'antitesi collettiva dell'individuo e in sé celi, pertanto, il pericolo dell'alienazione dell'individuo, magari col generoso pretesto di sottrarlo alla sua pensosa ed operosa solitudine, alle difficoltà e al dovere deìl'bomo sum. Il Marchesi, ben misurando in sé medesimo, nella semi-secolare opera sua d'insegnante medio e universitario, nella sua moltepli¬ ce attività di scrittore, di critico interprete dell'antica poesia la positività umana del classicismo, dell'utilità del classicismo, poteva, quindi, senza né indisciplina né contraddizione, ribadire, presso il termine della propria esistenza, come la parola d'ordine d'una sua postuma battaglia, e foss'anche impegnata contro i proprii «compagni»: «Se la conoscenza della lingua latina dovesse decadere o perire tra noi, noi sentiremmo spezzato il filo ideale che ci congiunge al passato» (nel che, fra parentesi, Marchesi vedeva la definizione medesima della pura barbarie). Ma nemmeno voleva una scuola per i «tecnici» del latino, per una minoranza di classicisti «professionali», avulsi dalla vita, discepoli e insegnanti d'altra e ben peggiore «scuola di classe». A pochi mesi dalla repentina sua fine, riaffermava perciò su Ri nascita: «Non lasciamoci accecare dai fari abbaglianti della tecnica moderna: le lucerne che vegliarono le carte dei nostri antichi restano accese ancora, attraverso i millenni, e resteranno. Rispettiamo la scuola classica... Il giorno in cui quella scuola sarà riservata agli specialisti del classicismo essa sarà uccisa, perché ne saranno chiuse le porte agli uomini che usciranno dalla scuola alle molteplici opere della vita». Restano i suoi libri, resta l'opera sua, resta, incancellabile, la sua orma nella nostra memoria, lettura e rilettura degli antichi poeti. Ed egli vivrà con essi e quanto loro, perennemente. Ma non avrebbe effettivamente, vittoriosamente compiuto l'opera sua d'interprete dell'Antico, se non ne avesse colto, rivelato, rivissuto Vbumanitas: se non avesse, consapevolmente od inconsapevolmente, operato cosi per l'affrancamento e l'umanizzazione dell'Uomo. Perciò quanti chiedano tuttavia all'bumanitas antica e sua il conforto e la forza di negarsi alla disperazione, alla disumanizzazione, al nullismo dell'alienazione o dell'anti-storia, ben possono, con umiltà, ma con orgoglio e fiducia, sentirsi oggi reverentemente vicini e fedeli alla memoria gloriosa di Concetto Marchesi. Piero Treves

Luoghi citati: Isvizzera, Livorno, Roma