Grande giornalista e direttore di Giulio De BenedettiCarlo MoriondoGiulio De Benedetti

Grande giornalista e direttore Commosso cordoglio per la morte di Giulio De Benedetti Grande giornalista e direttore Scoprì per primo, nell'estate del '14, la mobilitazione generale in Germania e descrisse le tradotte di soldati tedeschi che urlavano "Nach Paris" - Vittima della persecuzione razziale dovette rifugiarsi in Svizzera - Tutti temevano il suo rigore Giulio De Benedetti ebbe la grande occasione della sua vita nel 1912 e non se la lasciò sfuggire. Con quel fiuto particolare per le decisioni giuste, che fu una delle sue caratteristiche principali. Era alla « Stampa » da due anni; una sera il direttore e proprietario, Alfredo Frassati, entrò nella redazione (il giornale era allora nella sua seconda sede, in via Davide Bertolotti, dove ora c'è una lapide) e disse: «Ho licenziato il corrispondente dalla Svizzera. C'è qualcuno di voi, che sappia bene il tedesco, che voglia andare a sostituirlo a Zurigo? ». Giulio De Benedetti — è la moglie che racconta — alzò una mano e disse: « Io ». Fu mandato in Svizzera. In realtà sapeva pochissimo di tedesco e di qualsiasi altra lingua, però quando si hanno ventiquattro anni tutto si può imparare. Frassati aveva licenziato il suo predecessore perché chiedeva un aumento di stipendio; De Benedetti, abilissimo, ottenne che il suo fosse portato d'un balzo da 70 a 150 lire: nemmeno molto, tenuto conto della differenza, già allora, tra il ricco franco e la povera lira. Andò a Basilea, per essere più vicino al confine tedesco, e qui seppe nell'estate del T4, che al di là, in Germania, si muovevano molti reparti militari. Prese una bicicletta, melo a vedere: scorse dei vagoni zeppi di gente con l'elmo a chiodo che urlavano: « Nach Paris, a Parigi! ». Era la mobilitazione generale. Telefonò la notizia a Frassati, che si fidò di quel giovane corrispondente e fece un'edizione straordinaria: così gli italiani seppero che stava per cominciare il conflitto mondiale. De Benedetti insistette negli «scoops», come ora si direbbe con parola esotica che non gli piacerebbe per nulla, e telegrafò un servizio in cui svelava come erano mimetizzate le fabbriche di dirigibili attorno al lago di Costanza, che aerei inglesi si affrettarono a bombardare... Ma queste sono cose che sembrano appartenere alla mitologia, come gran parte delle cose che avvolsero quel grande direttore. Invece sono realtà, e mostrano che egli poteva insegnare, in prima persona, come si fa un giornale. Fu la sua dote migliore, quel suo voler sapere tutto e tutto valutare secondo un metro unico: l'interesse del lettore. Nel '19, a guerra finita, passò alla « Gazzetta del Popolo » e vi percorse una rapida carriera, portando il vecchio giornale a tirature mai più raggiunte, introducendo pagine speciali, vivificandolo in ogni settore, cercando le firme più belle purché si trattasse di articoli interessanti. Su questo non transigeva: « Il giornale è un servizio » gridava, e giù freghi con la matita rossa e blu per eliminare le lungaggini. Un giorno si permise, con la massima disinvoltura, di tagliare un intero capoverso ad un elzeviro di Benedetto Croce: pare che il filosofo non abbia reagito neppure con una let tera. Come inviato della « Gazzetta » ebbe occasione di incontrare Hitler a Monaco, dopo il putsch fallito. Raccontava: « Era un esaltato. Disse che gli ebrei lui li riconosceva lontano un miglio. Io stetti zitto, deve ancora saperlo adesso, che ne aveva uno davanti, al di là del tavolo... ». Nel '29 fu allontanato dal suo posto per antifascismo. Fu un colpo duro, ma non lo piegò: continuò a lavorare sotto falsa firma oppure anonimo alla « Stampa », grazie all'intervento personale del senatore Agnelli. Riuscì ad evitare la cattura rifugiandosi in Svizzera, a Lugano; tornò in Italia nel '45, in estate, e lavorò al fianco di Franco Antonicelli alla direzione dell'« Opinione », quotidiano di ispirazione liberale. Passò poi a « La Stampa » come ) vicedirettore di Filippo Bur ! zio, e nel '48, quando questi ! morì, sali a direttore di , « stampa » e « Stampa Sera ». D - vpnt'anni ux^° p^r vem.al¥'1'. . \ Due decenni duri, soprat ì tutto per chi doveva lavora- re ai suoi ordini. Era esigente guai se intravedeva una certa neghittosità ed anche solo un minore slancio nel mestiere. Ma come si poteva dargli torto? Egli stesso era l'esem- pio: dieci, dodici, quindici ore di lavoro al giorno, alla scrivania, in tipografia e poi a casa di nuovo a pensare al giornale, nient'altro che al gornale. L'idea-base era rimasta quella: il servizio da dare al lettore che ci paga. Santo principio, che gli permetteva di presentarsi al prof. Valletta e dirgli: « Ecco qua il bilancio. E' in attivo. Dalla Fiat non voglio una lira. Se vi piace è così e se non vi piace me ne vado ». Non furono sempre pacifici i suoi rapporti con il senatore Agnelli né quelli con Valletta, ma De Benedetti parlava con le cifre: il giornale saliva, distanziava la « Gazzetta », distanziava soprattutto « l'Unità », che cosa c'era da ridire? Del giornale sapeva tutto, anche le cose di cui personalmente non gliene importava niente, come lo sport, ma voleva che tutto fosse perfetto: « Scrivete chiaro, cose semplici, fate punto sovente. Al massimo mettete dì quando in quando un aggettivo. Il lettore arriva a casa stanco, scocciato, ha la moglie che sta male, il bambino che prende brutti voti, le tasse da pagare. E voi volete che apra il giornale e si metta a leggere cose barbose? Nemmeno per sogno. Cose brillanti, curiose, che interessino tutti, il bottegaio come il professore. E caso mai, prendete ispirazione da qualche giornale straniero. Ricordate questa massima: giornalista che non copia muore di fame! ». Ne avevamo tutti una paura terribile. Non c'era inviato speciale, nome autorevole del giornalismo internazionale che, chiamato da lui, non si sentisse tremare il cuore. Qualcuno andava addirittura ad informarsi dagli uscieri: « Di che umore è il capo? Sapete mica che cosa vuole da me? ». Qualcuno, già famoso, si mise a piangere per un suo rimbrotto, come fu il caso di Enzo Biagi. Altri se ne andarono, non resistendo ai rabbuffi, e fu il caso di Emanuelli. Altri si rassegnarono, come Piovene. Ma nessuno, fino a che De Benedetti fu al giornale, potè dire di non essere stato costretto, per quanto obtorto collo, a dargli ragione. Lasciò il giornale nel dicembre '68: non gli piaceva la •nuova sede, ed intuiva che i tempi erano cambiati: questo, più che l'età avanzata fu il vero motivo del suo ritiro. Lasciò il giornale nel pieno delle forze, benché avesse settantotto anni, ed entrò di diritto nel regno del mito. Certe sue manie, alcuni atteggiamenti, sono ormai celebri, se ne parla come di certi tic di Napoleone. Egli lo sapeva e ci ironizzava con i fedelissimi della vecchia guardia che andavano a trovarlo « Ho fatto bene ad andarmene. Non sono più i nostri tempi, non potrei più fare tutto quello che ho fatto ». La sua scomparsa segna davvero un « altro tempo » per il giornalismo italiano. Carlo Moriondo Giulio De Benedetti, diresse «La Stampa» fino al 1968