Amava tanto l'Italia, un po' meno Roma di Carlo Moriondo

Amava tanto l'Italia, un po' meno Roma Nel pomeriggio del 9 gennaio 1878 moriva il «primo re dell'Unità» Vittorio Emanuele II Amava tanto l'Italia, un po' meno Roma Nel pomeriggio del nove gennaio 1878, giunto cent'anni fa, le campane di tutta Italia, dalla capitale all'ultimo borgo, suonarono a morto. Un gelo avvolse il Paese: era j scomparso re Vittorio Emanuele II. L'aveva portato via, in quattro giorni, una broncopolmonite; una malattia che adesso sarebbe curata con sicurezza, ma allora era sovente mortale. L'aveva contratta uscendo accaldato da una festa di corte, dove aveva sudato molto e forse si era anche arrabbiato dentro di sé, diventando, come gli capitava, tutto rosso in volto: perché Vittorio Emanuele odiava le feste, odiava la corte, gli era antipatica Roma, gli era antipatico quel Quirinale dove la ragion di Stato, a cui si era sempre dimostrato ossequiente, lo obbligava a soggiornare, anzi a chiudersi ed a smarrirsi in un dedalo di stanze cariche di arazzi, di affreschi, di quadri, che lo op primevano. Il suo pensiero tornava sempre a Torino, la prediletta, da ogni angolo della quale poteva scorgere le montagne e sognare nuove escursioni, nuove cacce al camoscio, magari nuove avventure con qualche prosperosa ragazza. Ricordiamo che quando la moglie gli diede la bella notizia che tra poco sarebbe stata madre, lui, principe ereditario, non trovò di meglio, pei manifestare la sua gioia, che portarla a fare una passeggiata in piazza Castello e su e giù per via Po, loro due soli, tra la folla che si levava il cappello v cedeva il passo: sì che al ritorno ricevettero una severissima reprimenda da Carlo Alberto, che li spedì per qualche tempo al castello di Moncalieri. Ma a Roma, dal Quirinale non si vedevano montagne: soltanto molti campanili ed il cupolone di San Pietro sempre li a ricordargli, con un senso di minaccia, che né Pio IX, né larga parte degli italia ni erai.o d'accordo che si fosse fatta l'Italia in quel mo do... Cosi Roma, il suo ambiente, le gravissime preoccupazioni di cui lo caricava lo stato neonato e pieno di guai furono tra le cause che minaro no la sua ferrea costituzione, rendendolo vecchio subito dopo i cinquant'anni (continuò a tingersi i capelli, che aveva rossicci, sia per occultare la sua ascendenza in parte tede¬ sca, sia per restar giovanile), togliendogli iniziativa e voglia di vivere e portandolo infine alla tomba a soli cinquantotto anni. Ma quando se ne andò colui che, con molta parte di ragione, venne chiamato il re galantuomo, il compianto fu unanime, come già era avvenuto, diciassette anni prima, alla morte di Cavour: si ebbe la sensazione che uno dei cardini su cui poggiava l'avvenire del Paese fosse stato schiantato, che l'Italia avesse perso una sua stella fissa, a cui puntare per orientarsi in tempi così difficili. D'accordo: la storiografia sabauda ha peccato per cortigianeria, perlomeno fino al '43, ma dalla Liberazione in poi, non tutti gli storici hanno saputo liberarsi dalla parzialità di segno opposto. Ora, nel centenario della morte, dopo trent'annd di repubblica, è forse possibile tracciare un profilo più equanime di Vittorio Emanuele II, dell'uomo e della sua opera. Interroghiamo il professor Francesco Cognasso (novantadue anni...), specialista in studi su quel re. Come può essere giudicato oggi Vittorio Emanuele II? «Sul suo coraggio personale nessuno può discutere — dice Cognasso —-. Era fin troppo audace. Rimase ferito ad una coscia nella battaglia di Goito: durante la guerra del '66 un generale dovette mettersi di traverso, con il suo cavallo, per impedirgli di proseguire verso gli austriaci, gridando che si sarebbe aperta la strada a sciabolate. Come coraggio politico, nessun dubbio che ne disponesse: era aperto a tutte le tendenze, finanziò di nascosto Garibaldi, seppe resistere a Cavour che lo spingeva a proseguire ia guerra da solo contro l'Austria, dopo l'abbandono da parte di Napoleone III; chiamò la sinistra al governo quando intuì che i tempi lo volevano. Aveva suprema coscienza dei suoi doveri e dei suoi diritti di re; per questo la monarchia potè essere un coagulante straordinario, riunendo attorno a sé gli uomini migliori, pronti a tutto sacrificare — anche se stessi e le proprie convinzioni — pur di fare l'Italia. Qualche difetto? Certo, che ne ebbe, come ne hanno tutti gli uomini, ma di gran lunga prevalgono in lui le doti positive. Su tutte il fiuto politico, che gli permise di destreggiarsi tra difficoltà interne e pericoli esterni, fino a compiere l'Unità, in quella meravigliosa "primavera della Patria", come disse il Car¬ ducci, che fece confluire a Torino uomini eccezionali...». Ma tutto questo appartiene al passato, da quella primavera molte stagioni sono tra- ! scorse. Che cosa può significare, al giorno d'oggi, in questa Italia cosi diversa da i quella di allora, e soprattutto [ per i giovani, una figura co-1 me quella di Vittorio Ema-1 nuele II? Ne parliamo con il i prof. Narciso Nada, che ha la cattedra di Storia del Risorgimento a Torino. «Vittorio Emanuele II possedeva uno straordinario senso dello Stato e della necessità che uno Stato si facesse rispettare nell'interesse comune. Identificava praticamente la Nazione con La dinastia, come volevano i tempi: ma seppe comprenderli, adattarsi, resistere, attaccare al momento giusto: tutto nell'interesse superiore dell'Italia. che bisognava "fare" allora o mai più. Quando iniziò la carriera di re, il Piemonte era una fragile noce tenuta stret ta nella tenagda costituita dalla Francia e dall'Austria; quando morì l'Italia era una realtà ed una potenza...». Sono trascorsi cent'anni; l'Italia d'oggi non ricorda quel re neppure con un francobollo. Si sono fatte emissioni commemorative anche per Dina Galli, che è stata una brava attrice, ha fatto ridere e piangere, ma forse — siamo giusti — il suo «Felicita Colombo» non ha per il Paese un'importanza pari a quella della presa di Roma. Oppure le Poste sono semplicemente, com3 d'abitudine, in ritardo? Non è il caso che riparino: la Storia ricorda da sé re Vittorio assieme a Cavour e Gioberti, Garibaldi e Mazzini. Carlo Moriondo