Ma l'assemblea è anche teatro di Ernesto Gagliano

Ma l'assemblea è anche teatro TRA LE VIRTÙ ED I VIZI DI UNA CONQUISTA SOCIALE Ma l'assemblea è anche teatro Che l'assemblea sia una conquista nessun dubbio. Una volta era un peccato, una ribellione alle gerarchie cui toccava per investitura il compito di sapere e stabilire. Adesso si tengono assemblee in fabbrica, in ufficio, in aula, in palestra. Si consulta la «base», si affrontano insieme momenti gravi, si discute su come lottare, come lavorare, come studiare, oppure si misurano le forze e gli umori dei gruppi. Si partecipa: ecco quel che conta. Non si è solo spettatori o sudditi anchese poi spesso ai piani superiori dei palazzi di vetrocemento «i giochi sono già fatti». Ma l'assemblea — fra tanti meriti e qualche abuso — non è solo questo. E' anche un modo di rompere il silenzio, di comunicare gli uni con gli altri, di avere un immaginario palcoscenico e un pubblico provvisorio. Diceva un professore: «Oggi tutti possono intervenire, anche quelli che non hanno niente da dire. Ci sono delle frasi belt'e pronte, un discorsetto prefabbricato che ciascuno può avere in tasca. Una specie di copione». Basta alzarsi, ad esempio, e dire: «Non limitiamoci ai dettagli, guardiamo il quadro globale» . Oppure aumentando il volume in tono perentorio: «Quel che conta è la volontà politica» . O ancora: «Portiamo avanti con coerenza la linea sindacale, come abbiamo sempre fatto». Frasi in scatola Queste frasi ed altre dello stesso genere — aggiungeva il professore — messe assieme in una varietà di incastri possono comporre un intervento che, più o meno, funziona. Sarà un discorso in scatola, ma molti lo fanno per avere anch'essi il momentaneo brivido della ribalta. Qui però bisogna andar cauti perché c'è subito chi ribatte: «Interventi inutili? E' la solita osservazione da individualista ipercritico. Nessun intervento è inutile. Anche se ripete cose già dette. E' una presenza. Ed è questo che conta, soprattutto quando sì deve decidere qualcosa» . Bene, adesso lo sappiamo. Occorre quindi sgombrare il campo dal pregiudizio che in assemblea si debba parlare solo se si ha qualcosa da dire. No, non è necessario. Il fallo che uno si alzi e pronunci delle parole è già di per sé positivo. Anche se talvolta è «sindacalese» che ha perso nel logorio quotidiano ogni significato («La cosa si vanifica nella misura in cui non ci si crede» ) o scialbo aneddoto personale («Non so se vi interessa, ma a me è capitato» ) o pura digressione sonora («Dai, dai, con quella faccia che hai!» ). Dal che si vede, senza offendere i profeti dell'assemblearismo, quanto sia insidiosa l'attrattiva scenica. «Certo che l'assemblea è anche teatro — concorda una psicologa, Tilde Giani Gallino — con ì suoi priinattori, i suoi ruoli, il suo copione. Ricordo una riunione di studenti. Nel mezzo della discussione scoppiavano parolacce come se fossero petardi lanciati contro i professori. Era un rito esorcista. Le parole sostituivano i fatti, gli insulti avevano una carica liberatoria». E parla di sociodramma e psicodramma. «Può essere teatro — sosliene il prof. Giorgio Girard, docente di psicologia sociale all'Università di Trento — ma con fissità di ruoli, con un copione abbastanza rigido. Ci sono gli attori di primo rango, quelli di secondo rango e le comparse. Raramente sì scambiano le parti. E ognuno pensa: "Se dico questo dispiaccio a quel signore lì, se dico quest'altro mi inimico quel signore là". Così il tessuto è conformistico. E spesso quando vuol sembrare il contrario è solo conformismo con la giacca rivoltata». Anche un illustre scrillore, Carlo Cassola, non risparmia i suoi strali. «Ecco la solita falsa problematica — dice —; si pone sempre l'accento sui mezzi e mai sui fini. Vedo che anche le persone più vicine allu verità, che secondo me sono gli anarchici, in queste cose sono molto formalisti. Rifiutano ogni delega, dicono che tutto deve nascere dal basso. Sono piccoli problemi, questi. Quel che conta è arrivare alta formazione di una volontà comune» . Ma — obiettiamo — sono fenomeni di costume, oltre al resto. «Appunto, sono solo costume. A me interessano i fenomeni di fondo» . Sentiamo un'insegnante assai battagliera e fiduciosa in questi confronti collettivi. Preferisce avvolgersi nell'anonimato, ma deplora che le assemblee in taiuni ambienti di giovani (non certo fra gli operai) siano sempre meno politiche e più spettacolari rispetto a quelle sessantottesche di buona memoria. «C'è proprio l'intenzione di far spettacolo. Si cerca l'happening. Ci sono le chitarre, perfino l'abbigliamento è destinato a richiamare l'attenzione. E c'è anche il coro che ha una sua funzione dì leit-motiv» . Magari scandendo «Scemi! Scemi!» oppure «Lotta dura, senza paura» . Nel corridoio Quanto ai prolessori, c'è chi dice che l'entusiasmo assembleare tra di loro stia calando. Perché? «Perché prima si pensava di poter veramente determinare delle decisioni, poi ci si è ridotti a fare dello spettacolo. E dopo molte repliche ci si è stufali. Tanto non succede nulla. E' sempre il potere centrale che decide a suo modo. Oppure si è già stabilito tutto a livello di corridoio» . Dice proprio così: a livello di corridoio. Sì, perché nella nostra vila il corridoio, cioè quel luogo in cui alcune persone si mettono d'accordo sulle spalle degli altri, sta acquistando un ruolo enorme. In talune aziende per i importanza viene subito dopo gli uffici della direzione. Acuti osservatori hanno anche tentato un catalogo dei tipi che intervengono alle periodiche riunioni della base. Spiccano anzitutto quelli che credono realmente nel dibattito e fanno analisi e proposte serie magari leggendo su un fogliettino dove hanno scritto degli appunti; poi ci sono quelli che «si realizzano fuori» e quindi lì appaiono come fantasmi svogliati; infine ci sono i frustrati, sempre imprevedibili. Si alza uno, ad esempio, in preda ad uno stalo d'animo stizzoso, ed ecco che vuota il sacco con una punta di delirio. Attacca tutto e lutti, con epiteti di cui il più castigato è «stronzo», demolisce istituzioni, strutture e sovrastrutture, distrugge base e vertici e conclude con un «tolto tutto è inutile, qui dentro». Nichilismo? Disperazione esistenziale? Nel valutare gli schieramenti occorrerà tener conto anche di queste posizioni solitarie. Perché l'assemblea, oltre che democratico confronto di idee come dev'essere, o recita con canovaccio o passerella su cui fare la ruota come talvolta si rivela, può diventare in certe condizioni e ambienti anche sfogo, gioco del massacro, la- j I I I 1 | j vagg'o di panni sporchi. Si dicono cose che altrove non si direbbero quasi che lì ci sia una specie di impunità, un'indulgenza plenaria automatica. Tutto dopo viene dimenticato, anche l'atroce attacco personale, la condanna impietosa. E lì fiorisce talvolta una vena sincera, al di fuori dei soliti ruoli cui ci costringono le mansioni quotidiane. Come nella riunione in un ospedale psichiatrico con medici, infermieri e pazienti dove ci è capitato di vedere un malato, dignitosissimo, con giacca scura e occhiali, contagiato dal gioco della verità, avvicinarsi ad un riverito dottore che parlava al microfono e domandargli: «Scusi, lei quanto guadagna?». L'altro, seccato, aveva risposto: «Lascia stare, lascia stare!». C'è un limite, perbacco, anche allo spontaneismo. E' giusto quindi parlare di partecipazione politica e sindacale: e l'assemblea ne è un valido strumento. Ma. come si è visto, può trasformarsi in quella ribalta di cui abbiamo biso- j gno per uscire dai troppi silen- j zi, oppressioni, gesti obbligati j di cui è fatta la nostra giornata. Si accendono luci immaginarie. Signori, si entra in scena. Ernesto Gagliano

Persone citate: Carlo Cassola, Giorgio Girard, Tilde Giani Gallino