Chi porge l'altra guancia?

Chi porge l'altra guancia? È FINITA L'ETÀ DELLA RASSEGNAZIONE Chi porge l'altra guancia? Come sempre, nei giorni scorsi, abbiamo letto nei bilanci di fine d'anno che cosa è cambiato nel '77 e che cosa ci porterà il '78. E' un rituale quasi d'obbligo, ad ogni nuova svolta, compreso l'invito a non disperare per il futuro. Cerchiamo di rincuorarci perché abbiamo avuto la televisione a colori o la parità tra i sessi, ma continuiamo a non vedere un fenomeno di dimensioni impressionanti, che cresce sotto i nostri occhi E' finito un ciclo, un'epoca slorica: l'età della rassegnazione. Certo, la vita è più forte di tutto. Anche della violenza. Ma se vogliamo capire da dove viene la violenza, che è stata la vera protagonista dell'anno passalo e forse lo sarà anche del presente, dobbiamo renderci conto di questa evoluzione, di questo mutato atteggiamento delle masse nei confronti del potere. Si è rotto, forse per sempre, un equilibrio che reggeva il mondo da duemila anni, cioè dall'avvento di Cristo. L'ideologia della sopportazione, oggi, non sta più bene nemmeno ai preti. Basta vedere come le schiere degli estremisti siano state alimentate in questi anni proprio dalle file più irrequiete del movimento giovanile cattolico. Il capitalismo dell'Ottocento era certamente più ingiusto e offensivo di quello attuale, ma è sopravvissuto trionfante su tutte le rivolte perché era fondato su un semplice presupposto: che i poveri accettassero d'essere poveri. Pregando o imprecando, a testa china o a denti stretti, i diseredati hanno sostenuto per secoli il loro ruolo. Pochissimi predicavano la ribellione, e quasi sempre finivano male. La qual cosa convinceva tutti gli altri che era più prudente andare a Messa. Anche oggi, nella nostra società democratica, i ribelli finiscono male, ma dietro di loro c'è un consenso che prima era impensabile: quello degli altri disperati. Una specie di coro muto e spazientito, che qualche volta arriva fino a noi, e fa tremare i vetri delle nostre finestre mentre siamo intenti a tagliare il panettone. E' una specie di incendio che dilaga in tutto il mondo, ma che in Italia ha assunto le proporzioni che conosciamo perché questa è una terra dove l'ingiustizia è più radicata che altrove. Allora diventa ovvio, come abbiamo Ietto nei giorni scorsi, che ci sia gente che al panettone non rinuncia, anche se non ha i soldi per comperarlo. Cosi si riunisce in gruppi e va in un supermarket a fare un «esproprio proletario-). Dallo stesso spirito legittimista, cioè dalla fine della rassegnazione, sono nate le occupazioni di case, le autoriduzioni delle bollette, e molte altre forme di lotta che hanno sovvertito il quadro classico della lotta di classe. Se qualcosa ha imparato la gente (in questi anni di delitti impuniti e di fortificazione del privilegio) è che nessuno ti cede il posto se non lo prendi a calci, o quanto meno minacci di farlo. Chi mai può permettersi oggi di porgere l'altra guancia? Oltretutto sarebbe deriso. I movimenti non-violenti, ad esempio, che dovrebbero affascinare i giovani con la loro carica ideale, in realtà raccolgono scarse adesioni, perché i giovani hanno capito che solo l'uso della forza è in grado di cambiare le cose. La forza organizzata, naturalmente, non quella delle pistole individuali. Guardiamo cosa succede nelle nostre città. Mai come ora le amministrazioni comunali si sono preoccupate del bene collettivo, delle condizioni dei più bisognosi, e mai come ora i loro sforzi sono apparsi vani, simili a unguenti sparsi su una piaga che non vuol guarire. E' una piaga antica, e sappiamo di cosa è fatta: di povertà, di disoccupazione, di mancanza di prospettive per i giovani, ma soprattutto di nuovi acquisiti diritti, della coscienza che per essere bisogna avere. Le nostre periferie, così fotogeniche negli Anni Cinquanta, sono ghetti che schiumano rabbia. Le auto delle coppiette si raggruppane, paraurti contro paraurti, per difendersi dai violentatori. Chiunque di noi può diventare un ostaggio durante una rapina. E allora ci chiediamo sgomenti: com'è potuto accadere tutto questo? Occorre rispondersi: era fatale che finisse così. E non perché i ricchi non abbiano rinunciato ad essere ricchi, ma perché i poveri si rifiutano ogni giorno di più di essere poveri. Questa è la minaccia che pesa sull'umanità, questo è il dramma che dovremo risolvere nei prossimi anni. 1 nostri avi. a Natale, lo risolvevano con tante feste di beneficenza. A noi invece non bastano i sussidi, le imposte, le autotassazioni. Chi non ha, adesso vuole, pretende, esige ciò che vede negli altri, ciò che i manifesti pubblicitari propongono, e di cui un tempo poteva fare a meno. E non solo tra i proletari, ma anche nelle classi medie. Lasciamo dire ai sociologi quanta parte abbia avuto, in questo processo «egualitario», la decadenza dei dieci comandamenti piuttosto che le distorsioni del marxismo. Il fatto è che oggi, sul palcoscenico della società, vi sono parti che nessuno intende più recitare: quella dell'umile bisognoso, quella dell'immigrato paziente, persino quella del mediocre proletario. Un tempo si rapinava per sfamare i bambini. Oggi si può rapinare per portare in vacanza la famiglia. Non c'è molta differenza. Allora ci si ribellava alla mancanza di pane. Adesso nessuno è disposto a rinunciare alle ferie. Se non prendiamo atto di questo cambiamento non capiremo mai da dove viene l'onda crescente della violenza e della corruzione. Si è rotta la diga del peccato, e nulla ha sostituito quei tabù. Potevano farlo i partiti di sinistra, ma sono stati scavalcati dagli ideologi della rappresaglia, dai falsi profeti del «tutto e subito». Basta! è la parola che più spesso gridano i nostri muri. La gridano con ragione i più disperati, gli immigrati che abitano i fabbricati cadenti del centro storico. E con meno ragione tanti figli di borghesia, pugno alzato e motocicletta giapponese. Una generale intolleranza serpeggia in tutti i ceti, Né Dio né Marx: abbiamo perso la pazienza. D'accordo. Il risultato è questo coro di slogan, di urla minacciose. Il coro sconnesso e demente che accompagna le nostre giornate. Ahimè, temo, anche nel '78. Carlo Castellaneta

Persone citate: Carlo Castellaneta, Ietto, Marx

Luoghi citati: Italia